Il cibo divenne un discriminatore sociale – indicatore del ceto, misura della condizione – nel momento, remoto e non documentato, in cui alcuni individui cominciarono a richiedere più risorse alimentari di altri. Avvenne presto. Non vi fu mai un’età dell’oro di eguaglianza, nella storia dell’umanità: la diseguaglianza è implicita nell’evoluzione. Ovunque sopravvivano resti di ominidi in quantità sufficiente e in uno stato di conservazione tale da permettere di trarre delle conclusioni, si riscontrano differenze nei livelli di nutrizione di quella che appare essere una stessa comunità. Le sepolture del Paleolitico mostrano, in molti casi, una correlazione tra livelli di nutrizione e segni onorifici. Nei primi sistemi umani di suddivisione sociale a noi noti, il cibo svolgeva un ruolo di distinzione.
Senza dubbio l’avvento della cottura aumentò il pregiudizio in favore dei lauti pasti: essa ha infatti l’effetto equivoco e insidioso di rendere piacevole l’atto del mangiare e diviene, così, una tentazione per la gola, una strada in discesa verso l’obesità .
La certezza è impossibile, visto lo stato imperfetto di molte tra le testimonianze più antiche, ma l’avvento di modalità culinarie socialmente discriminanti si produsse con ogni probabilità relativamente tardi nella storia e, fino a un’epoca considerevolmente recente, solo in talune parti del mondo.
La quantità importava più della qualità. Un appetito gigantesco era considerato, in genere, segno di prestigio in quasi tutte le società, in parte perché era indice di forza fisica, in parte, forse, perché poteva essere soddisfatto solo con la ricchezza
L’abbondanza di cibo è parte della dotazione di ogni paradiso terrestre e anche di qualche paradiso celeste, come quello che attende i martiri musulmani o il Walhalla vichingo, con i suoi banchetti.
Un consumo eclatante funge da generatore di prestigio, in parte semplicemente perché è eclatante, ma in parte anche perché è utile. La tavola del ricco rientra nel meccanismo della distribuzione della ricchezza: la sua domanda attira fornitori, le sue eccedenze nutrono gli indigenti.
La condivisione del cibo è una forma fondamentale di scambio donato, cemento delle società; le catene di distribuzione degli alimenti sono legami sociali: creano rapporti di dipendenza, spengono rivoluzioni e tengono le classi che ne usufruiscono alloro posto
I banchetti reali della Mesopotamia fungevano originariamente da mezzi di distribuzione del cibo secondo una gerarchia di privilegio stabilita dai re. Come ogni altra cosa nel mondo assiro, acquisirono proporzioni spropositate allorché il sistema imperiale si sostituì a quello delle città-stato. Quando Assurnasirpal II (883-859 a.c.) completò il palazzo di Kalhu, diede un banchetto che durò dieci giorni, con 69574 invitati. Il menu prevedeva 1000 buoi grassi, 14000 pecore, 1000 agnelli, centi naia di cervidi di diverse specie, 20000 piccioni, 10000 pesci, 10000 gerboe e 10 000 uova.
Nell’Edda poetica, gli eroi Loki e Logi si sfidano a un’ abbuffata: vince il secondo, ingollando tutta la carne, le ossa e pure il vassoio.8 Queste eroiche mangiate non erano considerate un atto di egoismo È sorprendente come la straordinaria quantità di cibo servita -e talvolta consumata persista quale un indice di status
Una tavola imbandita restò segno di prestigio sociale, in Occidente, per tutto il XIX e fino agli inizi del xx secolo, con le crescenti possibili tà di variare il menu che contribuivano a moltiplicare il numero di portate. Tuttavia, nel tono satirico di certe descrizioni, si coglie un atteggiamento ambiguo.
Il ménage domestico dell’ arcidiacono Grantly di Trollope non dimostra solo il suo benessere economico, ma anche la sua mondanità.
“ Le forchette d’argento erano così pesanti da riuscire fastidiose alla mano, mentre il cestino del pane era di un peso veramente formidabile per ogni persona men che robusta.
Il tè era del migliore, il caffè del più nero, la crema della più densa; v’ erano crostini asciutti e crostini imburrati, focaccine di più specie, pane caldo e pane freddo, pane bianco e pane scuro, pane fatto in casa e pane del fornaio, pane di frumento e pane d’avena: e se ci sono al¬ tri tipi di pane oltre questi, erano là; e v’ erano uova in sa1vietta, e pezzi di lardo croccanti sotto coperchi d’argento; v’ erano pescio1ini in una scato1etta e rognoni arrostiti che s’arricciavano su un piatto a bagnomaria e, tra pare tesi, erano collocati nelle immediate vicinanze del piatto del degno arcidiacono.
E sopra tutto questo, su una tovaglia bianca come la neve stesa sulla credenza, v’ erano un enorme prosciutto e un enorme lombo, il quale ultimo aveva rallegrato la tavola della cena la sera precedente.
Tale era la dieta ordinaria di Plumste ad Episcopi.
Dunque la grande quantità è un tratto storicamente importante dell’alimentazione d’élite: ingordigia e spreco costituiscono una forma diffusa di sfoggio aristocratico, le abbuffate eroiche sono gesta esemplari.
Tuttavia, la mera quantità non poteva rimanere il solo criterio distintivo di una dieta prestigiosa: il gusto ha un effetto nobilitante non meno dello spreco e nell’evoluzione sembra essere programmata anche una selezione qualitativa. In confronto a quello di altri primati di dimensioni simili, il regime alimentare degli esseri umani ha un’ elevata qualità nutrizionale per unità di peso.19 Poi c’è la varietà che, come la qualità, caratterizza la dieta dei ceti alti e può essere anche un bisogno di matrice evolutiva, l’ideale di una specie onnivora. Come ha detto l’incomparabile critico gastronomico Jeffrey Steingarten, «i leoni morirebbero di fame in un’ insalatiera, e le vacche in una steak -house, ma noi no»
La varietà dell’ alimentazione è funzione della distanza: raggiunge proporzioni impressionanti allorché i prodotti di climi diversi e di diverse econicchie si ritrovano sulla stessa tavola. Per gran parte della storia, il commercio a lungo raggio è stato una avventura rischiosa, costosa e su scala limitata: perciò la varietà della dieta è divenuta un privilegio legato alla ricchezza o allo status sociale.
Ci sono tre modi per riconciliare gli ideali di austerità ed eccesso.
Il primo si applica selezionando cibi scelti, rari o francamente bizzarri abbastanza appariscenti da nobilitare il pasto anche In piccole quantità.
Il secondo consiste nella preparazione elaborata di quantità modeste. Entrambi i metodi incoraggiano quel che oggi viene chiamato “foodismo”: la competenza da intenditore di chi a prima vista «di un riccio [di mare sa] rivelare la spiaggia» e che rende esoterico l’atto del mangiare.
Il terzo modo prevede la definizione di particolari regole di .etichetta che possono essere praticate solo da iniziati prescelti : I mangianti non sono più legati a specifici alimenti, serviti in grandi quantità o preparati secondo modalità particolari: non conta ciò che si mangia, ma come lo si mangia.
Di grande effetto può essere lo spettacolo di piatti fuori stagione, altra caratteristica dell’ alimentazione aristocratica che allude all’ eroismo come sfida alla natura.
Un grande cuoco del XVII secolo invitava, in malafede, i lettori del suo libro di cucina a non stupirsi se, talvolta, avesse inserito nelle ricette alimenti «come per esempio sparagi, carciofi, piselli [...] nei mesi di genaro e febraro, e cose simili che prima faccia» parevano «contro stagione». Bartolomeo Stefani, lo chef dei Gonzaga, signori di Mantova, scriveva in realtà al preciso scopo di épater les burgeois che avrebbero acquistato il suo ricettario: si vantava di realizzare piatti che richiedevano «buoni destrieri e buona borsa».
Più comunemente, il cibo del povero viene imposto dal ricco. Persi nei meandri dei vari menu socialmente differenziati, è facile dimenticare la grama verità .. che, per gran parte della storia, «le diseguaglianze nutrizionali di matrice sociale erano letteralmente una questione di vita o di morte».
Uno dei provvedimenti assistenziali per cui si rese celebre Pietro III d’Aragona fu di far mettere da parte vino inacidito, pane raffermo, frutta marcia e formaggio ammuffito per le elemosine.
Secondo una vecchia canzone dei mietitori romagnoli, «E’ gran a e’ patron, a e’ cuntaden la paja» (Il grano al padrone e al contadino la paglia).
E come Baldassarre Pisanelli, medico del tardo Cinquecento, garantiva ai lettori «il poro è pessimo cibo [...] che si deve dare ai villani», i quali, per il proprio bene, farebbero meglio a evitare la dieta di chi sta più in alto di loro: l’unica controindicazione del fagiano è che provoca l’asma nei «rustici»; queesti ultimi dovrebbero astenersi dal mangiarlo, lasciandolo a gente più nobile e raffinata.
L.e cucine cortesi. hanno spesso ingredienti distintivi, preclusi agli outsIder, come I cigni Inghilterra e il vino di miele in Etiopia.
Gradualmente, però, in quasi tutti i casi conosciuti, la distinzione sociale non è più solo questione di quali cibi vengano mangiati, ma anche di come siano preparati. Messisbugo, l’arbiter elegantiarum toscano della metà del XVI secolo, distingueva le ricette degne dei «grandi principi» da quelle per «uso ordinario»: gli ingredienti erano essenzialmente gli stessi, ma, nelle occasioni speciali, il numero di spezie aumentava decisamente.
Ai poveri della Parigi in via d’industrializzazione del XIX secolo si consigliava di comprare un grasso ottenuto da scarti di burro sgocciolature di arrosti, adipe di suino o di pollame. Difficilmente c’era altro da scegliere. In La France gourmande (1906), Fulbert-DumonteIl raccomandava avanzi di carne mischiati in crocchette – «fan profumare l’intera casa» – guarnite con fettine di tartufo cotte nello champagne.
I confini tra uno stile alimentare e un altro a vari livelli della società possono, in circostanze eccezionali, rimanere immutati per secoli in¬ trappolati in continuità che tutti i contatti e gli scambi possibili no; riescono a scardinare. In Emilia, secondo la voce più autorevole sulla storia culinaria di questa regione, La cucina “grassa”, così come un cliché turistico-gastronomico molto approssimativo tende a reclamizzare, è convenzione al limite della mistificazione, mito gastronomico e non verità alimentare, topos e luogo comune, non realtà. La cucina “storica” [...J degli emiliani è un'altra: [...J semplice e rozza e di gusto primitivo, quasi di fondo barbarico
All'inizio del XX secolo, i contadini mangiavano più o meno le stesse cose che ai tempi di Gregorio Magno.
Il pasto tipico di una famiglia d'epoca longobarda, in inverno, comprendeva pane, minestra e una spessa focaccia di fava e panìco, condita con grassi animali o d'olio, il tutto annaffiato da una cospicua quantità di vino. Il menu d'epoca moderna, nella stessa stagione, non variava di molto: la minestra poteva contenere pasta o fagioli, era cotta in acqua con l'aggiunta di lardo o cipolle per insaporire e accompagnata da un' aringa o lardo, insieme a una fetta di polenta. «La cosiddetta cucina aulica [...] da molti attribui¬a a Bologna, non è stata mai conosciuta dalla maggioranza dei bolognesi: la besciamella, per esempio, citata fino alla noia come qualità
esemplare dell’anima cucinaria bolognese portata al “morbido”, al “le¬ato”, all’ “amalgamato” , all’ “aromatizzato” , il popolo di questa città non l’ha mai conosciuta. [...] Parsimoniosa e sobria, la gente bolognese si nutriva senza troppe finezze e delicatezze.” Nella regione, la minestra è detta “biada dell’uomo” .»62
Ormai la situazione, naturalmente, è cambiata, ma persino quand’era prevalente non era tipica del modo in cui gli alimenti modificano di solito il loro profilo sociale. Essi mutano di posto nella gerarchia dell’accettabilità sociale con facilità e rapidità strabilianti. A volte, il mutamento è indotto da una variazione della disponibilità: l’allevamento in batteria del XX secolo privò il pollame d’ogni valore di rarità nel mondo occidentale. Ostriche e merluzzo, d’altra parte, sono balzati più in alto nella scala sociale al diminuire delle rispettive aree di riproduzione. Talvolta entrano in gioco i semplici meccanismi della moda: il giudizio favorevole di qualche celebrità, il fascino del nuovo, le oscillazioni di ciò che è considerato chic.
Persino i cambiamenti lenti – o quelli che noi riusciamo a individuare solo a lungo termine – ci sorprendono per la loro portata. I palati colti, nell’ antica Roma, erano ghiotti di consistenze vischiose: il prestigio di ghiandole e guanciale di suino, di zampetti gelatinosi, fegati congestionati dall’ipertrofia, funghi, lingue, coppa, cerghiandole e guanciale di suino, di zampetti gelatinosi, fegati congestionati dall’ipertrofia, funghi, lingue, coppa, cervelIa, animelle, testicoli, mammelle, midollo è confermato in modo incontestabile, non solo dalla frequenza con cui compaiono nelle ricette giunte fino a noi, ma anche dal fatto che quasi tutti divennero oggetto di leggi suntuarie.63 Il/aie gras era già una delicatezza al tempo di Omero, a giudicare dall’ orgoglio con cui Penelope dichiara «in casa mi bec¬cano il grano venti oche».64 Per un’ esperienza d’élite, i romani dovevano ricorrere alle frattaglie, ma tale preferenza non fu mai pienamente recuperata quando il Rinascimento riscoprì la cucina di Roma, ed esse sono rimaste cibo da poveri fino a un’epoca recente
Il pane bianco e quello integrale si sono scambiati profilo sociale in un modo che stupirebbe certamente gli antropologi di un altro pianeta. Il primo ha goduto della stima universale per gran parte della storia, in quanto pareva incarnare la raffinatezza: rispetto ai suoi “cugini” nero e integrale, è il prodotto di un processo più lungo, implica maggior lavoro, più scarto e ha un sapore più delicato.
Spesso richiede cereali di qualità superiore, ovvero più costosa. Nell’XI secolo, Gregorio, vescovo di Langres, faceva penitenza mangiando pane d’orzo.66 Secondo un sermone di Umberto dei Romani, nel momento dell’ammissione all’ordine, un converso a cui venne chiesto: «Che cosa desideri?», rispose: «Pane bianco, e spesso! »