Storia della pasta
tra Oriente e Occidente La pasta nel mondo classico
A ponente di Termini (Termini Imerese, in provincia di Palermo)
vi è un abitato che si chiama Trabia ( che in arabo significa terra quadrata), incantevole soggiorno con acque perenni e parecchi mulini.
Trabia ha una pianura e noti poderi, nei quali si fabbricano tanti vermicelli (triya) da approvvigionare dai paesi della Calabria,
quelli dei territori musulmani e cristiani e se ne spediscono moltissimi carichi per nave…
Quella riportata poco sopra è la prima testimoniata scritta relativa alla produzione di pasta essiccata. ed è tratta dal Libro : per chi si diletta di girare d mondo, santo dal geografo, arabo Al Idrisi per Ruggero II di Sicilia finito verso il 1154 ed edito in 9 tomi in Italia (Kitāb nuzhat al-mushtāq fī ikhtirāq al-āfāq), chiamato il libro di Ruggero (Kitāb Rugiār o Kitāb Rugiārī),
Questa di al-Idrisi è in assoluto la prima testimonianza scritta di una vera e propria fabbrica di pasta secca fabbricata per l’esportazione.
Ed il fatto che essa venisse fabbricata in grande copia anche per i paesi mussulmani sta a indicare che fosse di buona qualità. Prima ancora che in al-Idrisi, dettagliate notizie sugli i triya e le ricette per prepararli e cucinarli si trovano negli scritti del medico ebreo di Kairouan, Ishaq ibn Sulayman dell’VIII secolo, e nel Libro della salute del filosofo musulmano Ibn Sina detto Avicenna (980-1036), medico a Bagdad, che li descrive come striscioline di pasta, aggiungendo che in Persia li chiamavano «risha».
In realtà, la pasta accomuna da tempo immemorabile le popolazioni del Mediterraneo: se la Bibbia, nell’Antico Testamento, cita preparazioni simili a focacce, cotte sulla pietra rovente, l’esistenza di un tipo di pasta abbastanza simile alla odierna sfoglia all’uovo è citata già nella Grecia del primo millennio a.C., dove con il termine Nanna si indicavano delle sfoglie di foga larghe e doveva essere già nota anche agli Etruschi. se nella grotta “dei Rilievi” o `Grotta Bella” (IV sec. a.C.), a Cerveteri, alcuni rilievi rappresentano una serie di strumenti che ricordano molto da vicino quelli anche oggi utilizzati nella preparazione della pasta, tra cui una spianatoia e un matterello
Nel 35 a.c il poeta latino Orazio i (65.8 a.C.) così descrive nelle Satire la propria cena : Inde dimum me ad porri et ciceris refero laganique catinum”, ossia “quindi me ne torno a casa alla mia scodella di pani. ceci e lasagne”. frugale primo piatto tuttora comune in tutto il Sud dell’Italia.
Nel I secolo a.C. le lagne sono già protagoniste di una preparazione piuttosto complessa, descritta da Apicio nel IV libro del De re coquinaria , che prevede, più o meno come per le attuali lasagne, che le sfoglie siano alternate a carne, pace, uova e condite con olio d’oliva e pepe.
Sempre Apicio suggerisce, nello stesso libro, di utilizzare pezzetti di pasta sfoglia per dare maggior corpo alle minestre.
Le lagne si diffusero nel corso dei secoli in tutto il territorio dell’Impero romano, anche se in seguito la disponibilità di materie prime, che cambiava a seconda del luoghi, portò a varianti nella loro composizione. La semola di grano duro, con la quale la pasta veniva comunemente preparata nel Meridione (i Romani importavano il grano dall’Egitto o dalla Sicilia), era infatti raramente reperibile nelle regioni del Centro-Nord, a causa del clima più umido e freddo, favorevole alla coltivazione del grano tenero: ancora oggi, via via che dal Sud dell’Italia si sale verso il Nord, la cultura della pasta si caratterizza progressivamente per la maggior presenza di grano tenero e, dall’Emilia-Romagna in su, diventa protagonista la sfoglia preparata impastando la farina con l’uovo.
Tornando alle trya la testimonianza di Al Idris ci i dimostra che da almeno un secolo in Italia era nota la tecnica per essiccazione il termine trya è già attestata nel mondo arabo dall’accezione di “focaccia tagliata a strisce”, da molti ritenuta una sorta di focaccia non lievitata, cotta in ampi testi .Nel XIV secolo bari indica con questo termine una “pasta”
Il procedimento adottato per l’essiccazione della pasta al sole per qualche tempo, quindi posta in luoghi chiusi. L’ asciugatura al sole eliminava solo l’umidità più superficiale,
L’esposizione al leggero calore del fuoco favoriva l’affiorare dei residui di acqua, permetteva alla pasta di mantenersi per periodi assai lunghi e. come scrive Al Idris e di portarla verso destinazioni lontane senza deteriorarsi.
Vi è una testimonianza ulteriore della durata nel tempo della pasta siciliana : intorno al 1460 Maestro Martino da Como afferma nel suo ricettario che i maccaroni siciliani “se deveno seccare al sole, et mente facendoli del la luna de agusto…”. ripreso nel 1475 da Mina nel De Honesta voluptate e valitudine (“maxime vero insita). Il vocabolo trie sopravvive in molte ricette come un tipo di pasta filiforme, tirata a mano, (le manate lucane, i selli in Calabria) dal basso Medioevo però la pasta viene che con il termine maccheroni che, già in uso in Sicilia troviamo in uno scritto del poeta tedesco Walter Von der quale parla della predilezione dei Siciliani per i maccheroni
A lungo discusso, l’etimologia della parola maccheroni deriverebbe dal siciliano maecurnmi, a sua volta derivato da maccari , ossia schiacciare , con riferimento all’azione di lavorare vigorosamente la pasta di semola di grano duro: la semola di grano duro, infatti, a causa dei minuscoli granellini di cui è composta. stenta ad imbibirsi di acqua e richiede una lavorazione molto più energica rispetto alla farina di grano tenero
Il Medioevo e la nascita delle corporazioni
Dalla Sicilia la pasta esecrata raggiunse presto la Liguria, grazie agli scambi commerciali via mare tra le due terre: il grano duro importato dalla Sicilia veniva lavoralo sulle coste liguri, dove il clima mite e ventilato costituiva garanzia per la perfetta essiccazione del prodotto lavorato
Ai primi del Trecento la pasta è ormai diffusa in tutta l’Italia del Centro-Nord, come attesta un documento del 1284 conservato all’Archivio di Stato di Pio, che ci dà notizia della vendita in questa città di vermicelli .
Del 1295, infine, tono le prime norme relative all’uso di pasta essiccata nel Regno di Napoli, dove la regina Maria, madre del re Carlo d’Angiò (Cado Martello) ne acquistò un consistente quantitativo per un banchetto.
nel 1295, registriamo nel XIV secolo anche la nascita della più antica tra le corporazioni dei pastai: sorta a Firenze riuniva produttori di pasta e fornai. I numerosi produttori genovesi di fidei (fidelini, pasta lunga e filiforme tipo capelli d’angelo) daranno vita insieme con i formaggiai a urna propria corporazione, quella dei Fidelasi. nel 1574, mentre tre anni dopo sorge l’analoga corporazione di Savona (Arte dei fidelari, 1577): del 1571 è la nascita dell’Arte delli vermicellari napoletana, del 1605 la costituzione della maestranza dei vermicellari di Palermo e, infine, nel 1642 si registra la nascita a Roma dell’Arte e universale dei Vermicellari, categoria precedentemente associata a quella degli ortolani.
Lasagne, ravioli, maccheroni, vermicelli, gnocchi…: fra Trecento e Quattrocento il ca-talogo delle paste alimentari è già delineato nelle sue componenti fondamentali, come attestano numerosi autori.
Nel 1338 il Compendium de naturis et proprieratibu s alimentonim di mastro Barnaba de Riatinis (Reggio Emilia) tracciava invece un inventano dei diversi tipi di pasta conosciuti nel Centro-Nord, comprendente “a quibusdam Vermicelli, ut a Thuscis, a quibusdam Orari. ut a Bononiensibus, a quibusdam Minutelli, ut a Venetis, a quibusdam Fermentini, ut a Regiensibus, et a quibusdam Pancardelle, ut a Mantuanis”.
tre ne son piccole e tonde, come quelle che chiamano millefanti, altre ne son piane, ma strette a foggia di fettucce, che son chiamate comunemente tagliolini, altre ne sono cotte e grossette e le chiamano agnolini, altre più lunghe e più grosse, chiamate gnocchi, e ve ne sono di mille altre guise che poca differenza fanno quanto all’essere più o meno sane”. I libri di cassa del 1666 dell’Arte dei Lasagneri di Venezia aggiungono ai formati elencati da Zacchia anche “nenelli e napioli”.
Già dal 1649 la pasta genovese era fatta con semola di grano duro, come è attestato dal verbale di una riunione della Corporazione dei Fidelari, nel quale i consoli discutono di “compre dei grani duri”. Un atto di vendita registrato a Savona nel 1794 ci permette invece di comprendere il processo produttivo dei pastifici dell’epoca, attraverso la descrizione della gramola e del torchio
La pasta industriale nacque dunque a Genova, prima ancora che a Napoli; tra le capitali della pasta meritano però un cenno anche Bologna e Palermo. La pasta di produzione bolognese si caratterizzava perché ottenuta da una taglia, per lo più all’uovo, dapprima lavorata a mano poi industrialmente, che veniva tagliata in mille diversi modi: corta per le farfalle o strichetti, o lunga, per fettuccine e tagliatelle che venivano avvolte a nidi. Ancora oggi la pasta sfoglia è parte integrante della tradizione gastronomica emiliano-romagnola, con le sue togline (le abilissime artigiane della pasta fresca)
Per quanto riguarda Palermo, che come abbiamo visto fu la culla della pasta essiccata e sin dal Quattrocento esportava pasta e grano in tutta la penisola, segnaliamo la testimonianza di Goethe, che nel 1787 nel suo Viaggio in Italia racconta di aver alloggiato ad Agrigento ( Girgenti) in casa di un pastaio, dove ha potuto assistere alla lavorazione di maccheroni: “… ci siam fatti spiegare le varie operazioni e apprendemmo così che quella specie di pasta si fa del frumento migliore e più duro, detto grano forte. Occorre del resto più abilità di mano che non lavoro di macchine o di forme. Ci hanno anche imbandito dei maccheroni squisiti, pur deplorando di non poterci servi¬re nemmeno un piatto di quella qualità superlativa, che si trova soltanto a Girgenti… Con tutto questo, la pasta che abbiamo gustato mi è sembrata, per candore e delicatezza di gusto. senza rivali”.
Mangiamaccheroni e mangiafoglie
Nel 1699 la Corporazione dei vermicellari di Napoli assume il nome di Corporazione dei Maccaronari, comprendendo sia i produttori di pasta fatta a mano sia quella fabbri¬cata a macchina, con il torchio e la trafila. Più o meno nello stesso periodo i napoletani, fino ad allora chiamati “mangiafoglia”, cominceranno a essere identificati come “mangiamaccheroni”, primo passo perché Napoli diventasse, come accadrà nell’Ottocento, la capitale indiscussa della pasta industriale.
I vermicellari di Napoli sono tra i primi a dotarsi di uno Statuto: il più antico risale al 1571, ma un bando rivolto ai pastai nel 1546 permette di retrodatare a quell’anno la costituzione della Corporazione.
La pasta rimane penò a Napoli, come in tutta l’Italia meridionale della prima metà del Seicento, un cibo riservato alle classi più abbienti: nel 1620 Giovanbatista Rasile scriveva nelle Muse napoletane: ‘Tre son le cose che la casa strudeno (distruggono ): zeppole Iosa tipo di dolciumi, pane caudo e maccarune”; sempre il Rasile li cita poi tra le leccornie con cui è imbandito il banchetto del re nella fiaba di Cenerentola, contenuta nel Pentamenale
Fino a tutto il XVI secolo l’alimentazione dei napoletani era basata essenzialmente sugli ortaggi: il cibo più popolare era costituito dall’abbinamento pane, cavoli e (anche se poca e più raramente) carne
Gli storici attribuiscono il mutamento nelle abitudini alimentari dei napoletani a un in-sieme di fattori: a un notevole aumento demografico, fece infatti da contraltare nella pri-ma metà del Seicento una diminuzione della disponibilità di carne, oltre alla messa a punto di sistemi che consentivano di produrre la pasta più a buon mercato, come la diffusione della gramola e l’invenzione del torchio meccanica il mercato dei pastai napoletani conobbe così una rapida espansione, grazie anche ai latravi, che fecero della pasta il proprio cibo-simbolo, innalzando il mangiamaccheroni a figura caratteristica della cultura napoletana. Divenuto di uso comune dopo la rivolta di Masaniello (1647), il termine latravo (o Mamme) deriva dallo spappolo lauto, che significa cencioso: si calcola che nel Settecento gli appartenenti a questa sorta da “sottoproletariato”, veri e propri abitanti della strada, raggiungessero le settantamila unità.
I mangiamaccheroni divennero ben presto una sorta di attrazione turistica, soprattutto grazie al loro modo di mangiare la pasta, documentato in un’infinita serie di stampe popolari: con la mano sinistra reggevano il piatto, con la destra sollevavano i fili di pasta e li portavano alla bocca. Nel 1777 la trasformazione era ormai cosa fatta, se l’abate Galliano scriveva alla voce -verdura” del suo vocabolario: “Fu tanta la passione che per la foglia cappuccia ebbero i napoletani nel secolo passato, che ne acquistarono il nome di mangia-foglia. Molti celebrarono le glorie della foglia. Ora restano eclissate dai maccheroni
‘essiccazione
“Il posto occupato da Napoli nella storia degli spaghetti è indiscusso. Benché il loro luogo di nascita o la loro scoperta sia una questione ancora dubbia, si sa invece con certezza dove sia stato scoperto e perfezionato il processo di essiccazione delle paste alimentari…
il vero segreto della pasta napoletana e, almeno fino al 1875, anno in cui comparvero i primi essiccatoi meccanici in Friuli, fu la ragione per la quale i pastifici si stabilirono prevalentemente in località costiere, esposte allo spirare continuo di venti secchi. Sin dal tempo delle trie, infatti, quello dell’essiccazione è un problema decisivo per la conservazione della pasta nel tempo, oltre che per la sua tenuta alla cottura: come abbiamo visto. la semplice esposizione al sole non era sufficiente per prosciugare la pasta anche internamente e il problema fu dapprima risolto ponendola In camere riscaldate per mezzo di bracieri
Nei Fondici napoletani la pasta era essiccata da sempre naturalmente, grazie al vento ponentino proveniente dalla costa, attraverso una articolata sequenza di tagli , la cui scansione era decisa e controllata dalla figura, divenuta poi quasi mitica, del capo pastaio.