Il primo (Cuoco )

 IL PRIMO
 ( di Anthony Boucher )

— Audace fu quell’uomo — scrisse il diacono Jonathan Swift — che per primo mangiò un’ostrica. — Un uomo, potrei aggiungere, con cui la storia della civiltà ha un debito enorme – se non fosse che ogni debito è stato totalmente ripagato da quel momento di estasi che, primo fra tutti gli uomini, poté assaporare.
Figure altrettanto epiche sono state innumerevoli nella storia di questo pianeta; pionieri le cui imprese sono paragonabili alla scoperta del fuoco, e probabilmente superiori all’invenzione della ruota e dell’arco.
Ma nessuna di queste leggendarie scoperte (salvo forse quella dell’ostrica) può vantare
un’importanza rimasta inalterata fino ai giorni nostri, tranne un unico, irripetibile, ancor più momentaneo episodio, verificatosi agli albori della storia dell’Uomo.
                                   E questa è la storia di Sko.

  Sko se ne stava accoccolato all’imboccatura della caverna, fissando la pentola dello stracotto. Un’intera giornata di caccia aveva fruttato quell’unica pecora decrepita. Aveva passato gran parte di un altro giorno a far cuocere lo stufato,  mentre la sua donna conciava la pelle, accudiva ai bambini, nutriva i più piccoli con l’alimento
del petto materno che non richiedeva cacce faticose. E ora tutto il resto della famiglia sedeva in fondo alla caverna, con la bocca e gli stomaci che mugolavano dalla fame, dal disgusto per il cibo e dalla paura della morte che viene per mancanza di cibo, mentre lui solo mangiava la carne ovina stracotta.
Era insipida, monotona, repellente al gusto. Lui aveva i suoi buoni motivi per mangiarla, ma non poteva dar torto alla famiglia. Nove mesi e nient’altro che pecora o montone. Gli uccelli erano volati via da tempo. Gli altri anni erano soliti ritornare; chi sa mai perché tardavano tanto quest’anno.
Presto i pesci avrebbero risalito ancora il fiume, se quest’anno era come gli altri; ma chi poteva esserne certo? Sembrava un anno così diverso.
Adesso chiunque mangiava cinghiale o coniglio moriva in breve tempo, e quando si facevano i Sacri Tagli di rito gli si trovavano dentro strani vermi. L’Uomo del Sole aveva detto che era ora un grave peccato contro il Sole nutrirsi del cinghiale e del coniglio; e questo era evidentemente vero, perché i peccatori ne morivano.
Pecora o fame; carne di montone o morte. Rigirò penosamente il grosso boccone in bocca, continuando a riflettere. Lui riusciva ancora a imporsi di mangiare; ma la sua donna, i suoi figli, il resto del Popolo… Uno poteva ormai contare le costole degli uomini, e i bambini più piccoli avevano grandi occhi e niente guance sulla faccia, e ventri come lisce pietre rotonde. I vecchi non vivevano più a lungo come un tempo, e anche i giovani si presentavano davanti al Sole senza ferite di uomo o di belva da
mostrarGli. Il cibo-che-non-richiede-caccia diventava ogni giorno più scarso e acquoso nel petto delle donne; e Sko poteva ormai battere facilmente nella lotta tutti quelli che poco tempo prima lo atterravano senza sforzo.
Il Popolo era ora il suo Popolo, perché lui poteva ancora mangiare; e poiché il Popolo era il suo Popolo, lui doveva continuare a mangiare. Era quindi come se il Sole stesso gli chiedesse di trovare un modo per far sì che il Popolo mangiasse ancora, mangiasse fino a ritornare alla vita.
Lo stomaco di Sko era ormai pieno, ma la bocca se la sentiva ancora vuota. Eppure c’era stato un tempo in cui, benché lo stomaco fosse vuoto, la sua bocca era stata fin troppo piena.

Cercò di ricordare. E allora, mentre si leccava le labbra cercando di richiamare quella sopita sensazione, improvvisamente riemerse in lui il ricordo.
Fu all’epoca dell’Estate Secca, quando il fiume si era prosciugato e tutte le sorgenti erano morte, e gli uomini erano partiti verso il Sole nascente o il Sole morente per trovare nuova acqua. Lui era stato uno di quelli che l’avevano trovata; ma aveva dovuto spingersi troppo lontano. Non potendo soffrire la carne secca di cinghiale che portava con sé (non era un peccato allora), aveva fatto uso di tutte le sue frecce, e si trovava ancora lontano da casa e aveva bisogno di mangiare.

Mangiò così alcune delle cose che crescevano dal terreno, come gli animali, e alcune erano abbastanza buone.

Ma poi aveva estratto dalla terra un bulbo, che era diviso in molti piccoli spicchi; e uno di questi spicchi, uno soltanto, gli aveva riempito la bocca di un gusto così forte che non riuscì a sopportarlo e dovette bere quasi tutta l’acqua che aveva portato con sé per dimostrare il suo successo. Ricordava ancora quel sapore pungente.
Brancolò con la mano nel buco a fianco della caverna che era il suo ripostiglio. Vi trovò il resto di quel bulbo che s’era portato dietro in ricordo del luogo lontano che aveva visitato. Tolse un po’ della pelle bruno-violacea, secca e scricchiolante, nettò uno degli spicchi bianco-giallastri e lo annusò.
Persino l’odore riempiva un po’ la bocca. Soffiò forte sulle braci, e quando la fiamma si risvegliò e la pentola riprese a bollire, buttò dentro lo spicchio con un pezzo di carne di pecora. Se una riempiva lo stomaco e non la bocca e l’altro la bocca e non lo stomaco, può darsi che insieme…
Sko implorò il Sole di fare in modo che la sua’ congettura risultasse giusta, per il bene del
Popolo. Poi lasciò bollire la pentola senza pensare a nulla per qualche tempo. Alla fine si alzò, tagliò via un boccone dallo stufato e lo addentò. La bocca si riempì un po’, anche se meno di quanto sperava. Ed ecco che un lampo improvviso si accese in lui e ricordò qualcos’altro che poteva riempire la bocca.
Si diresse a passo sostenuto verso il Posto-che-si-lecca, che la tribù condivideva con le pecore e altri animali. Ne tornò poco dopo con una bianca crosta cristallina. La lasciò cadere nella pentola, e mescolò con un bastone, continuando a guardare finché la crosta non sparì. Lasciò ancora bollire il tutto per un po’, quindi addentò un altro boccone.
La sua bocca ora era veramente piena. L’aprì ancora e da quella pienezza sgorgò, rimbombando nella caverna, l’urlo che significava cibo! Fu la moglie a uscire per prima. Vide solo la solita pentola di stracotto di pecora e stava per tornare sui suoi passi, quand’egli l’afferrò, la costrinse ad aprire la bocca e ci cacciò dentro un grosso boccone della nuova pietanza. Lei lo fissò per un lungo momento di silenzio. Poi le sue mascelle cominciarono a lavorare freneticamente, e solo quando non rimase più
nulla da masticare, lanciò l’urlo del cibo! per chiamare i bambini.
Ci sono altri Posti-che-si-leccano in giro, pensò Sko, mentre loro mangiavano; e si può
organizzare una squadra per andare a prendere altri bulbi dove ho preso questo. Ce ne sarà abbastanza per tutto il Popolo… Nel frattempo la pentola era stata vuotata, e Sko Fyay e la sua famiglia sedettero a
leccarsi le dita.  Dopo migliaia di generazioni di cuochi, sale, aglio e fame hanno complottato per creare il primo
chef dell’umanità.

(  Titolo originale: The First – © 1952 Anthony Boucher.)
Posted in Senza categoria | Leave a comment

il(primo ? ) ricettario

Il (primo ) ricettario

Uno dice : adesso cerco una ricetta per…  od anche dice :  Adesso vi propongo una ricetta per… oppure qualcuno vi dice con molto sussiego da qualche blog : ecco la mia ricetta per …, e si intuisce che ognuno ha un bel RICETTARIO

Dopo di che ci si chiede ma .. ..e il  primo ricettario ? Come al solito .si  si va a curiosare fra i vari vocabolari e scopre che ricetta non ha come primo significato il legame con il cibo

Ecco qua un esempio :

n.f. [pl. -e] 1 prescrizione scritta con cui il medico indica la medicina che il paziente deve prendere e la relativa posologia: fare, scrivere una ricetta; un farmaco da vendersi solo dietro presentazione di ricetta medica 2 ( fig.) rimedio: una prodigiosa ricetta per la tosse; un buon libro è un’ottima ricetta contro la noia 3 indicazione degli ingredienti, del loro dosaggio e del modo di impiegarli per preparare una vivanda o altro: ricette di cucina; la ricetta per la torta di mele; la ricetta dell’anitra all’arancia; chiedere, farsi dare una ricetta  dim. Ricettina

Il nostro amico vocabolario della crusca .. ci conferma che la lingua parlata non prevedeva ‘ricette’

[1]RICETTA

Regola, e modo da compor le medicine, e da usarle.  Cr. 6. 38. 1. E quando si truova nelle ricette, vi si dee mettere la radice, e non 1’ erba.

[2][ RICETTARE]

‘ Liv. M Egli fu cacciato dei campo alla prima percossa, e si ricetta dentro delle sue

tende.  E Appresso Gli equi si dipartiron de’ campi, e ricettaronsi nelle montagne.

E altrove. Anzi si ritornarono turn bellamente, e si ricettaro nelle montagne.

[3][ RICETTATORE]

Che ricetta . Lat. receptor.

[4] SEGRETO. J

Dicesi talora segreto qualche ricetta ‚O modo saputo da pochi, d’ operai qualche cosaBisogna aspettare la fine del 700 per avere una indicazione dai nostri amici vocabolari

 

E infatti La parola ricetta deriva dal latino recepta e indicava prioritariamente l’ordinazione scritta indirizzata dal medico al paziente e al preparatore di farmaci.

Scopriamo anche che anche ‘qualche anno fa’  vi era differenza fra lingua parlata e lingua scritta ed anche allora c’era qualcuno che scriveva come si parlava

Visto che lo fanno tutti,  cito anche io la novella di Ser Meoccio  ghiottone di Gentile Sermíni, dove di dà il significato attuale che ci interessa :Siamo alla metà del 400 e questo è forse uno dei primi libri in cui il termine compare

.. Ser  Meoccio  ghiottone  piovano  di  Pernina,  con  false  predighe  diè  a intendere a’ suoi popolani, che a dare limosine a poveri o a incarcerati fusse  peccato,  e  a  sé  le  ridusse  facendo  l’altare  ben  fruttare:  e  uno libricciuolo di ricette di cuochi per breviale studiando, il quale pervenuto alle  mani  di  Lodovico  Salerni,  di  quello  e  di  molte  altre  cattività  in presenzia del popolo lo vituperò, che fu cagione di cacciarlo.

.. E in questo cavò fora il suo breviale (il quale studiando il suo  chiergo,  addormendosi,  gli  cadde  di  mano  e  Lodovico  lo  prese),  e tutto  il  fe’  leggere  a  uno  suo  fante,  il  quale  cominciava:  «Deus  in adiutonium  meum  intende»,  poi  tutto  di  ricette  di  cuochi  era  pieno, contando  di  tutte le vivande e ghiottornie che fare si  potessero, in che modo cuocere si dovessero e con che savori, e a che stagione…..

Ricetta è il termine che si riferisce ad una ‘composizione sciolta’ , mentre i ricettari erano in realtà i libri :

Liber de coquina, Libro per cuoco, Libro della cocina sono i titoli di alcuni dei primi manoscritti italiani alle  tra la fine del XIII e gli inizi del XV secolo

Se i primi libri di cucina, sono del XIV secolo, e sono  forma di codici,  l’uso più ampio del termine ricettario si protrarrà per secoli, sia nel citato campo della farmacopea, sia nella redazione di opere destinate alla buona conduzione della casa, con consigli di igiene o di economia, sia appunto nell’indicazioen di cosa e come cucinare

Il compilatore può essere un medico, un maggiordomo o il padrone stesso, interessati a una nozione ampia della nutrizione, all’economia delle conserve e delle scorte, ai prodotti dell’igiene come i saponi.

E quindi scopriamo che i trattati di scappi , di Mastro Martino ecc.   Hanno una struttura ‘modernissima ‘ Non c’è ‘enciclopedia della cucina’ che non contenga oggi come 600 anni fa, prima delle ricette indicazioni sugli strumenti della cucina,

E addirittura alcune di queste modernissime Enciclopedie danno anche utili consigli sulla gestione della casa , sulla conservazione, sulle modalità di di cottura  e infine sulle aggiunte di spezie agli alimenti.
Quale la differenza fra i trattati del 600 e gli attuai ? Ma la pubblicità , perbacco !

Siamo certi che i libri di cucina ovvero i ricettari , e le ricette Ci accompagneranno ancora per molto tempo , anche nel futuro .

Ma Oltre a dirci come ,cosa si cucinava ? quali erano le prelibatezze che comparivano nelle tavole ? e qui vi lasciamo con una piccola carrellata fra passato e futuro , rigorosamente in ordine sparso

A voi l’imbarazzo della scelta …

 

Dal generatore automatico di ricette

Delizia ai profumi di provenza.

 

Si tratta una nota realizzazione della Novelle Cuisine, perfetta per un pranzo estivo. Tempo  di preparazione: tre ore e venti minuti più quattro ore per la frollatura. E’ un piatto difficilissimo. Ricetta per venticinque  persone:

Iniziate a far soffriggere otto manciate di misure di salsa verde; tritate otto peperoncini di cayenna. Aggiungete al composto ottenuto quattro tazze di fettine di manzo. Nell’attesa avrete gia’ fatto rosolare cinque pizzichi di sale: quanto ottenuto e’ da aggiungere al vostro preparato. Fate riposare in frigorifero per due ore. Correggete con petali di rosa e aggiungete dello zucchero. Servite in tavola freddo in un sottopiatto. Si consiglia di gustare con un nettare bianco, per esempio un brunello di sardegna, rigorosamente da offrirsi freschissimo.

tortine speziate al prosciutto.

Per 3 porzioni occorrono:

90 g di fragole-1 carota-20 g di prosciutto-140 ml di latte-

Istruzioni:

Preriscaldate il forno a 180° C-Mettete il latte nel forno a microonde-Tostate il prosciutto-Macinate il latte-Saltate in padella le carote-Mescolate con il latte-Portate il prosciutto a bollore-Friggete le fragole

Cuocete in forno per 80 minuti e servite calde

 

 

Da Mastro Martino da como 

Per far ogni sapore

Sapor bianco

Piglia delle amandole secundo la quantit che tu vuoi, che siano ben mondate, et ben piste. Et perch non facciano olio como ho ditto pi volte, pistando vi mecti un pocha d’acqua fresca. Et pigliarai un pocha de mollicha di pane biancho stata prima a moglio nell’agresta, et pistarala con le ditte amandole, agiungendovi del zenzevero biancho, cio mondato a sufficientia. Et questa tal compositione distemperala et passarala con bono agresto, overo con sucho di pomeranci o di limoni, facendolo dolce con il zuccharo et bruscho con agresto, et pomeranci pi et mancho secundo il gusto del tuo Signore o altri. Et tal sapore si vol dare con ogni allesso a tempo di carne, o di Quadragesima.

Pastello di lampreda

Mettila a mollare in pocha d’acqua et raschia via quella vescosità che ha di sopra, ma non guastare né rompere la pelle, et cavali la lingua et li denti, et in fondo del ventre dove è il suo sexo gli farai un buco piccholo tanto che vi possi mettere la ponta del dito, et con un coltello o con un stecco de ligno acuto alzirai suso per quello buco il suo budello tanto che ‘l possi prendere con la manu involtata in un panno di tela et tirarlo fora pianamente che ne venga tutto sano senza rompersi, perché la lampreda non ha in corpo niente

di gattivo, excepto questo budello; et ricoglierai molto bene tutto il suo sangue che con quello se ne fa il sapore, et in la bocca gli mettirai una meza noce moscata, et in tutti quilli buchitti che ha presso a la testa gli mettirai un garofolo sano; et in questa forma mettirai la lampreda in giro in un tegame di terra capace de essa lampreda; et dentro gli mettirai meza oncia de olio bono con un poco d’agresto et un pocho de vino biancho del migliore che possi havere, facendo tanta la quantità di questi licori che copra la lampreda più di meza.

Et di sopra gli mettirai un poco di sale, facendola cocere ad ascio sopra la brascia como una torta. Et quando comincia a cocere apri con il coltello quilli buchi che sonno sotto la testa, et strignendola di sopra con un tagliero o altramente, tanto che tutto il sangue n’esca tutto fora, et mescolise con queste altre cose; et questo cavarli il sangue il poterai fare per malore comoditate, se più ti piace, innanzi che la metti al foco. Et per fare il suo sapore habi de l’amandole o nociole; senza mondare le farai brusculare con la cenere calda, et nettale facendole pistare con un poca d’uva passa, et con una fetta di pane abrustolato le stemperarai con agresto et con un poca di sapa et con un poco di quello vino et altri licori sopra ditti, in li quali si coce la lampreda; et passato ogni cosa per la stamegna gli agiognirai un poco di zenzevero, et pochissimi garofali, et de la canella assai, item del suo sangue [che] haverai ricolto prima che l’habi posta cocere; et mescolarai con le cose sopraditte, le quali tutte inseme penerai con la lampreda a bollire tanto che sia ben cotta, poi la voterai inseme con questo suo sapore in nel piattello et mandarala in tavola. Item la poterai cocere ad un altro modo, cioè arrosto ne lo spito, tenendogli sotto quando si volta qualche vaso attuato a questo per ricogliere lo sangue, il grasso che cocendosi gucciula et escie de la dieta lampreda, che questo è ‘l meglio de la sua bontate. Et con questo poterai componere et fare un sapore como ordinatamente si monstra di sopra, il quale darai con essa lampreda; ma le piccole, cioè le lampredoze, vogliono essere arrostite ad ascio sopra a la graticola, facendoli un sapore con suco di naranci et sapa. Et non havendo naranci, in loco suo gli mettirai dell’agresto con un poco d’olio et di sale et de le spetie dolci. Et mentre si rostono le bagnirai spesso col ditto sapore. Et cotte le mettirai sopra il rimanente del sapore sopraditto et manderale in tavola.

 

Bartolomeo Scappi

  Per fare pasticci di Storione in cassa per servire caldi.

 

“Piglinsi la pancia del storione, che sarà sempre  la sai migliore, fiortichisi, et  taglisi in pezz i grossi, et piccioli, fecondo cbe  si vorrâ fare il pasticcio , et faccisino flore per un’bora involti inspetie riccorne i pesçi del cap. sopradetto, pongbisino in cassa con prugne, et  rifciole fecche  P Inuemata, et nella Trimauera, et Estatta uvaspina, o agresto intiero, la quai cassa sia fatta di farina setacciata, et  acqua senza sale, et sia ben soda, e volendosi la casia  de lpailiccio di migliore compositione,  pongasi con esta  acqua,et butiro;  ma in giorno Quadragesimale non occorre acqua, et butiro, ma solo farlo con aequo. semplice  , cuoprasi  il pailiccio, et facciasì  cuocere, et cotto che fard cosi caldo si  servirà, non si metta grasso in questi psticci perche da se il storione grasso . In quello modo si può fare di tutte le parti del Storione ,eccettuando la testa intiera

Da Memorie di un cuoco d’astronave

Carpaccio di Simbionte Tukk-ee-n-oo in salsa di Hu-ru-ke-de

 

Ricetta tratta dal ricettario personale del Capo Cuoco Rudy “Basilico” Turturro

Dosi per 4 persone

500 grammi di carne di Tukk-ee-n-oo -3 spicchi d’aglio -1 manciata di erba cipollina -3 cucchiai da tavola di olio di Hu-ru-ke-de

Prendete la carne, paratela di pelle, osso e grassetti vari e surgelatela, diciamo per un  paio d’ore di modo che non sia un blocco duro, ma solo un blocco compatto. La surgelazione serve solo perché permette di tagliarla con comodo e molto sottile: la carne di Tukk-ee-n-oo, come del resto quella di molti volatili terrestri, la si mangia di solito cotta, ma vi assicuro che l’unico segreto per farne dell’ottimo carpaccio è il taglio sottile.

Appena tagliata disponetela in una sperlinga e lasciate si desurgeli a temperatura ambiente. Per la salsa sarebbero necessarie delle Hu-ru-ke-de di quelle sugose che emettono il ho-l-ee-oh,  originali  di  Hu-mm-ae-ree-kuh;  ma  posso  capire  che  siano  difficili  a  trovare sulla Terra. Potete validamente sostituirle con noccioline americane e olio di arachidi; aggiungere uno spicchio d’aglio, erba cipollina, sale e pepe e pestate il tutto in un mortaio di legno. Salate il carpaccio e spargeteci la salsa sopra; lasciate riposare per un paio d’ore prima di servire.

Note e Variazioni

È possibile che non vi sia facile trovare della carne di Tukk-ee-n-oo dalle vostre parti e non vorrei che l’accenno alle loro capacità matematiche vi abbia tratto in inganno; sono  solo animali, quindi la direttiva Primaria non vale; certo se siete vegetariani è un altro  discorso; ma insomma se non trovate il Tukk-ee-n-oo, la carne terrestre che più gli si  avvicina è quella della sovraccoscia di tacchino. Deve essere però molto grosso, la sovraccoscia deve pesare almeno un chilo anche perché, se no, non si taglia bene.

 

 

Archestato da Gela

Prendi in Mileto dal Gesone il cefalo, e ¡I pesce lupo dagli dei allevato, Perché quel luogo per natura porta Questi eccellenti. Altri, ver è, più grassi Ven’ han, che nutre a palude Bolbe, Ambracia ricca, e Calidon famosa; Ma a questi pare, che nel ventre manchi Quel tale grasso, che soave olezza , E quel sapore, che soave punge. Son quelli, amico, di stupendo gusto. Gli stessi interi, con tutte le squame, Arrosti acconciamente a lento fuoco, E poi con acqua e ista mensa reca. Ma non ti assista mentre gli apparecchi Di Siracusa o deli’ Italia alcuno, Giacché costoro preparar non sanno I buoni paci, e guastan i. vivande Ogni cosa di cacio essi imbrattando, E di liquido aceto, e di salato Siiflo spargendo. I  pesciolin di scoglio, Questi che son dei tutto da esecrerai, Sanno usi preparar meglio che gli altri: E son valenti nel formar con arte Più . E più sorti di manicaretti Pieni tutti d’ inezie e di leccumi (35). ..

….  Son molti I modi  e molti li precetti  Di preparare il lepre, ma eccellente Ê quel d’ apporne, in mezzo a’commensali, Cui punge I’ appetito, per ciascuno La carne arrosto sparsa sol di sale, Calda, dallo schidon çrudetta alquanto. Strappata a forza ., né  t’incressca il sangue Che ne vedi stillare, anzi la mangia Avidamente. Inopportuni e troppi Son del tutto per me gli altri apparecchi Di molto cacio, di molto olio a untume, Come se a gatti s’imbandisse  mensa (53). …..

 

Celio Apicio

CAPO XXXIV.

Savore  Acido Per La Digestione

Mezza oncia di pepe. Tre scrupoli di siler gallico  (84. Sei scrupoli di cardamomo(9). Sei scrupoli di comino. Uno scrupolo di malabatro. Sei scrupoli di menta secca. — Ogni cosa, pesta e shivdata che sia, impastata col mele. Quando ti bisogni  aggiungi savore ed aceto.

Altrimenti  — Una oncia di pepe. Una oncia Di prezzemolo , di carvì(1o)ed i lingustico. Impasta col mele; ed allorché voglia usarne  uniscivi savore ed aceto

CAPO VI.

Cocomeri

I cocomeri scortecciati, se gli appresti con savore, o con savore acido, ti riesciranno più leggieri, talchè non ti produrranno né  ruttazioni, nè flatuosità.

¡n altro modo  -Lesserai i cocomeri da prima scortecciati con cervelli già lessati, comino e poco mele. Oppure, con semi di sedano, savore cd olio. Condenserai il rugo con amido, cospargerai di pepe e servirai.

Cocomeri in altro modo – Pepe, puleggio mele o vino d’ uva passa,  savore ed aceto. Qualche volta puoi aggiungere laser.

Posted in Senza categoria | Leave a comment

Il (primo ristorante) parte II

Parte seconda
La nascita dei ristoranti a Parigi può essere considerata la risposta francese alle taverns, in un periodo in cui è di moda tutto ciò che è inglese.
Non a caso il primo grande ristorante degno di questo nome è denominato La Grande Taverne de Londres. Questo lussuoso locale, aperto nella capitale francese nel 1782 da Antoine Beauvillier, che lo aprì dopo aver gestito un locale simile , : La Maison Chevet e soprattutto aver lavorato per il re di Francia .
Questo  incontra fin da subito un gran riscontro di pubblico, attratto dalla novità che esso rappresenta. Come ricorda Brillat-Savarin  egli per primo ha “una sala elegante, camerieri ben vestiti, una cantina scelta e una cucina ottima”. Infine Beauvillier ci ha anche lasciato una monumentale opera in cui spiega tutte le ricette del suo localePoco tempo dopo apre un altro ristorante il ristorante Aux Trois Frères Provenceaux” ” i tre fratelli provenzali “  Anche per questo Brillat Savarin ha riportato il menu di allora:
12 zuppe,
24 antipasti
5-20 piatti a base di manzo,
24 piatti di carne di montone, selvaggina e pollame
da 15 a 20 piatti di carne di vitello,
12 crostate,
24 pesci,
15 arrosti,
50 antipasti,
50 dolci
La strada era aperta .Circa nel 1800 apre il primo ristorante anche negli Stati Uniti , a Boston , Julien’s Restorator (ca.1793-1823il , guarda caso ad opera di un profugo della rivoluzione francese ‘ristoratore’ anch’egli :Jean Baptiste Gilbert Payplat
Due sono però i presupposti che rendono possibile l’affermazione della nuova istituzione ristorativa: uno di carattere giuridico, l’altro  collegato al particolare contesto storico, economico e sociale.
Relativamente al primo punto, i memoriali ricordano il celebre caso di Boulanger, che con la sua intraprendenza sfida le restrizioni al commercio delle produzioni culinarie. Nel 1756, quest’uomo entrato nella storia apre una bottega nei pressi del Louvre, nella quale si servono principalmente dei “ristoranti”, ovvero brodi di carne pensati per ristorare le forze. Prepara e vende però anche dai piedi di montone in salsa bianca, sfidando il rigido monopolio della corporazione dei trattori, i quali intentano un processo. Il giudice dà sorprendentemente ragione a Boulanger, aprendo per quest’ultimo le porte del successo e offrendo all’istituzione ristorativa le precondizioni per lo sviluppo.
Negli anni immediatamente precedenti alla rivoluzione francese si presentano inoltre le condizioni che permettono di fornire all’esercizio ristorativo una domanda adeguata: i deputati rivoluzionari che dalla provincia giungono a Parigi e qui vi alloggiano mostrano di gradire l’opportunità di pranzare assieme nei nuovi raffinati locali sorti nei pressi del Palazzo Reale. Col loro esempio, stabiliscono una moda che molti altri si mostrano desiderosi di imitare, decretando il successo di questi primi ristoranti, conosciuti però ancora piuttosto a lungo quali “trattori”, come testimonia la tarda entrata della parola “ristorante” nel Dictionaire dell’Accademia, registrata per la prima volta nel 1835.
Gli eventi rivoluzionari contribuiscono alla creazione delle condizioni di mercato alla base dell’istituzione ristorativa non solo stimolando la domanda, bensì anche favorendo e consentendo la formazione di un’offerta che possa dare risposta ai nuovi desideri.
Ecco i tre elementi che favorirono la fioritura dei ristoranti dal 1789
•    l’esilio degli aristocratici francesi più di spicco, che causò la disoccupazione di decine di cuochi, rosticcieri, pasticceri, camerieri;
•    l’abolizione delle corporazioni di origine medioevale, che rese facile a chiunque aprire l’attività voluta;
•    l’affermarsi di una classe di politici, giornalisti, uomini d’affari, persone con buone disponibilità economiche, ma non in grado di aprire casa a Parigi, bisognose di avere luoghi per pranzare bene, in tavole o salette riservate, abbastanza eleganti da potervi ricevere amici o colleghi.
Cessato il “Terrore”, durante il “Direttorio”, con l’esplosione della gioia del ben vivere, il ristorante diventò il luogo celebrativo per eccellenza della borghesia professionale e finanziaria. Dalla Francia questo nuovo luogo di “ristoro” si diffuse in tutto l’occidente, per giungere anche nelle grandi città italiane dopo l’unità della nazione (1861).
Lo splendore e la raffinatezza della cucina delle case nobiliari viene riprodotta nei ristoranti più lussuosi dei boulevards parigini, mentre uno stile più sobrio ma comunque di un certo valore gastronomico si ritrova nelle diverse tipologie di locali adeguati a tutte le tasche “la rivoluzione francese ha permesso di trasferire quest’arte alla borghesia e anche, in parte, alle classi popolari Il passaggio all’ambiente ristorativo porta con sé delle ripercussioni evidenti sui caratteri della professione di chef e dell’arte culinaria. Abbandonando il rapporto subordinato che intratteneva con il padrone aristocratico, il cuoco divenuto spesso anche ristoratore intrattiene con i suo clienti ad una rapporto di scambio di natura tendenzialmente egualitaria. Da questo momento inoltre, gli chef non si devono confrontare più solamente con il datore di lavoro, bensì entrano in competizione fra loro per conquistarsi una clientela. La professione culinaria acquista quindi un suo proprio pubblico, determinando con esso la nascita di una pubblica opinione sulle materie di gusto culinario. Lo chef da questo momento deve iniziare a preoccuparsi seriamente di come guadagnarsi una reputazione e di come mantenerla, dovendosi confrontare incessantemente al giudizio dei suoi clienti e della neonata critica gastronomica. I cuochi acquistano una collocazione del vedere (altri cuochi ed esperienze culinarie) ed essere visti (da una clientela pubblica, e dai concorrenti).
Ma siamo sicuri che le condizioni storiche e d economiche che hanno favorito lo sviluppo dei ristoranti non fossero presenti altrove ?
Molte delle caratteristiche che definiscono un ristorante moderno erano già in atto nella  Cina della Dinastia Song (1127-1279 a.c).
Si scopre che i ristoranti di questo tipo  esistevano in Cina prima delle invasioni mongole.
Nella Cina del sud la dinastia Sung (ca. 1127-1279),per esempio, aveva tutti gli elementi necessari per favorire lo sviluppo ristoranti.
Il dominio della  dinastie si estendeva  su un’area circa quattro volte più grande della Francia del XVIII secolo, ed era  composta da  una popolazione di oltre 60 milioni di persone.
Kinsay Era un vivace distretto commerciale, imprenditoriale ed anche di corruzione . Aveva una economia monetaria con una  circolazione ampiamente accettata carta moneta e godeva  di un attivo  commercio estero, principalmente in seta e porcellana . La sua capitale era la città di Hangzhou. Prima delle invasioni mongole, Hangzhou era la città più grande del mondo, con circa un milione di abitanti. Al contrario, nello stesso periodo, le più grandi città in Europa, tra cui Parigi, avevano di solo poche decine di migliaia di abitanti.
Hangzhou aveva sia strade che canali, e le barche erano utilizzate per il traffico passeggeri, oltre che per il trasporto merci. La via principale era la Via Imperiale, che si estendeva tre miglia dal Palazzo imperiale alle porte della città.  ampia 60 metri e pavimentata con pietra e mattoni. nel centro città erano presenti edifici a più piani, fino a  dieci
Hangzhou era ricco e lussuoso, il centro dell’ eleganza in Cina, così come Parigi lo fu per l’Europa 500 anni dopo. Spettacoli di strada (Per esempio, giocolieri, menestrelli, acrobati) erano comuni ,e vi erano spettacoli giornalieri in teatri popolari
Case da tè e le taverne, specializzate in varietà di vino di riso, proliferavano.
Bere il tè era popolare in Cina da circa 500 anni. Tre varietà di tè erano coltivati vicino Hangzhou. Altre erano state importati da altrove
Le Taverne vendevano tipicamente un numero limitato di selezione  di cibo e bevande.
Il Menù era consegnato ai clienti e poteva elencare torte salate (per esempio, gamberi torta, torta di baco da seta, maiale o torta di montone) o cagliata di fagioli, zuppa, ostriche o le cozze. (Al contrario, le taverne a ovest, molto più tardi, avrebbe semplicemente offerto  il cibo per coloro che stavano bevendo.)
L’attività di strada e l’abbondante traffico commerciale in Hangzhou generava domanda per i ristoranti. Il contesto economico era perfetto per lo sviluppo del settore della ristorazione, e nascono “innumerevoli” ristoranti. Gernet, per esempio, scrisse: “Il grande . ristorante aveva porte in forma di archi ornati di fiori ” Citando una nota datata 1275, Gernet ha continuato:” ‘Non appena i clienti hanno scelto dove potranno sedere, viene loro  chiesto che cosa vogliono .La gente di Hangzhou è molto difficile da accontentare. Centinaia di ordini vengono dati da tutti i lati: questa persona vuole qualcosa di caldo, un altro qualcosa di freddo, un terzo qualcosa di tiepido, un qualcosa di refrigerato, uno vuole cibo cotto, crudo un altro, sceglie arrosto, un altro barbecue. …
‘”Hangzhou ha avuto anche molti ristoranti dedicati a certi tipi di cibo o alla cucina regionale. Marco Polo ha commentato sulla scena dei ristoranti lì (con descrizioni simili a quelle dei contemporanei cinesi) e di fatto di cui con entusiasmo a Hangzhou come “la città più nobile e la migliore che è nel mondo “
La Segmentazione del mercato era diventata abbastanza sofisticata dal 1275.
Il Riso era un alimento base, sia in casa che nella cucina del ristorante. Venivano coltivati nove diversi tipi di riso
Ad  Hangzhou. Il manzo non era consumato perché il bue era  un utile e gli animali da fattoria costosi. Come anche  oggi in Cina, non c’era bestiame da latte. Latte e formaggi non erano consumati  La  parola ristorante significa infatti  “una tazza di zuppa “( un’altra curiosa somiglianza con il termine francese)
Una fonte del Sud Sung dà una ‘lista casuale’ di 234 piatti famosi che erano serviti in quei  luoghi, un elenco dal Sung del Nord ha 51. Cene probabilmente iniziano  con una zuppa o brodo come ‘cento sapori’ zuppa, cui fanno capo entrambe lista. Si poteva  quindi scegliere tra piatti a base di quasi tutte le varietà di carne, pollame, latte o frutti di mare al vapore-agnello, lepre, vongole fritto o granchi.
Diversi tipi di ‘carne e frattaglie .’ polmoni, cuore, reni, o omento venivano cucinate in vari modi. erano inoltre disponibili alcuni tipi di focacce e torte, anche se altri tipi di ristoranti erano specializzati in queste cose.

Posted in Senza categoria | Leave a comment

Il (primo) Ristorante Parte I

Ristorante, ristoro , ristorare., effetto benefico ( del cibo)

Dal vocabolario della crusca prima edizione del 1612 :

Ristorare ,Per ricrearsi, ripigliar conforto, refocillarsi. Lat. refocillari.

Boccaccio. n. 77. 10. Aspettando di ristorarsi, pur pazientemente il sosteneva.

Ristorare, ricreare, rifrigerare. Lat. refocillare.

Medit. arb. cr. Di questo olio sagrato tu ci ungi, Messere, e rifocilli le nostre assetate mascelle.

nel vocabolario della  crusca Non compare il termine ristorante , inventato più tardi

Ancora nel 1822 nel dizionario del Tommaseo non compare il termine ristorante , ma :OSTERIA, Taverna.  Osteria , Albergo. Trattoria, Locanda, Bettola, Rosticceria.

Taverna, luogo da bere , da crapola; osteria, da mangiare , da dormire. L’ albergo è più nobile dell’osteria: dico più nobile nel senso comune del vocabolo. Vi è alberghi più ignobili delle osterie.

Alla trattoria si mangia e si beve. E II padrone della trattoria si chiama, alla Francese, trattore (5). Pigliare il desinare dal trattore

Alla locanda, oltre a mangiare, si dorme ancora; e in ciò differisce dalla trattoria.

Anche all’osteria si dorme; ma osteria s’intende di luogo dove I concorrenti stanno più alla buona. I vetturali all’osteria.

Taverna ha senso di spregio anche più dl bettola; e tutt’e due son raddotti dl bevitori, più ch’altro, e di crapuloni.

Rosticceria, luogo dove si vende arrosto e frittura, soprattutto; poi, anche àrista e altre carni Fredde. Ma nella rosticceria non si mangia.

Taverna e  taverniere sono ormai rimasti  alla lingua scritta . Oste, ostessa, locandiere, locandiera, trattore, rosticciere (I padroni de’ luoghi); bettoliere e bettolante (chi pratica le  bettole), son tutti  dell’uso. e dell’ uso è pure il noto proverbio: fаге i conti innanzi all’oste; che vale, determinar le cose prima d’avere In mano tanto da poterlo fare , o prima di sentire il parere di chi ci ha voce. Nel qual caso segue, come dicono i Toscani, che « Chi fa i conti innanzi all’ oste; gli convien farli due volte

In compenso nel 1777 nell’ “Almanach Dauphin” ( tavole generali di mestieri e artisti )  compare il termine restauratore : sono restauratori quelli che producono  brodi , e anche tutti i tipi di creme, zuppe, riso e pasta, uova, pollo, marmellate, frutta cotta e offrono piatti appetitosi..Il prezzo di ogni piatto è singolo, e  i piatti vengono serviti in qualsiasi momento della giornata.

Ed ecco la definizione di Savarin (pubblicata nel 1825): che è ancora usata: Ristoratore è chi serve un pranzo sempre pronto , le cui pietanze sono offerte in porzioni a prezzo fisso , e che vengono scelte dal cliente. Il luogo è il ristorante , chi lo dirige il ristoratore .Si chiama semplicemente carte ( menu) l’elenco delle pietanze con l’indicazione del prezzo ….

Dal dizionario treccani :

ristorante s. m. [adattam., su ristorare, del fr. restaurant (v.)]. – Esercizio pubblico dove si consumano pasti completi che vengono serviti da camerieri su tavoli disposti in un locale apposito (il termine indica o vuole indicare un esercizio di categoria più elevata che trattoria)

E quindi Restaurant , in francese , termine legato all’iniziativa di un certo Boulanger, venditore di bolliti e brodo, che nel 1765 pensò di aggiungere al suo ristretto menù un nuovo piatto: piede di montone in salsa bianca, e di promuovere il proprio locale facendo scrivere sull’insegna l’appello evangelico: “Venite a me, tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Matteo 11, 28).

Quale e dove , dunque, il primo ‘posto’ Inteso come locale dove, fuori casa, si può mangiare seduti in tavola a pagamento, e scegliendo quello che si desidera , magari da un menu ?

Sobrino de Botin

Secondo il Guinness dei primati, il Sobrino de Botin, a Madrid, in Spagna, sarebbe il più antico ristorante tuttora in esercizio. Fu infatti aperto nel 1725. ( una vera storia di successo si potrebbe dire ! )

 

Grand Taverne de Londres

I più sono concordi nell’individuare la Grand Taverne de Londres come primo ristorante(in Europa) ad adottare la forma divenuta poi standard al giorno d’oggi (i clienti seduti al proprio tavolo con la propria porzione,  con la possibilità di scegliere la portata da un menu, durante specifici orari di apertura). Venne fondata nel 1782 da Antoine Beauvillier. , che anche lui aveva adottato il motto “venite e io vi ristorerò” affisso nel locale

 

Se invece pensiamo a modelli di comportamento diversi allora possiamo ritrovare numerose forme di precursori dell’istituzione ristorativa.

Il ristorante ha origini lontane, che risalgono  alla diffusione dei mercati e delle fiere. Esistono già dall’antichità locande o stazioni di posta collocate sulle strade principali, ove i contadini e gli artigiani lontani da casa si potevano riposare e rifocillare. In questi luoghi, destinati in particolare ai viaggiatori, era  possibile mangiare piatti semplici offerti dall’oste a seconda di quanto disponibile in giornata.

Nell’antica Roma, era già presente il  Thermopolium  considerato da molti il primo di bar / ristorante .Il Themopolium di Asellina è un primo esempio: Questo è uno dei più completi esempi di un thermopolium a Pompei.

Brocche e piatti completi sono stati trovati sul bancone, così come un bollitore pieno di acqua. Il piano terra del thermapolium  è stato utilizzato per mangiare e bere, e alcune scale portano alle  camere al secondo piano.

 

In epoca medievale nascono un po’ ovunque le botteghe alimentari, luoghi dove la gente può portare la propria carne per farla cuocere, oppure acquistare un piatto caldo precotto. Questi esercizi sono destinati in particolare alla popolazione meno abbiente, che non dispone nelle abitazioni di adeguati mezzi per la cottura dei cibi.

A Ferrara, a lato del Duomo, v’è quella che è documentata (fin dal 1435) come la più antica osteria del Rinascimento e, forse, del mondo. Già nel ‘400 esisteva l’Hostaria del Chiucchiolino e, uscendo o evitando la porta della chiesa, ci si infilava nel viottolo adiacente (ora via degli Adelardi 11) per assaggiare del buon vino a bordo di una barca; l’osteria si trovava – infatti – in una piccola insenatura formata dall’acqua piovana. Si narra che molti ospiti illustri abbiano frequentato questo locale.

Tra loro: lo scultore Benvenuto Cellini, i poeti Ludovico Ariosto e Torquato Tasso, l’astronomo Niccolò Copernico che visse e studiò proprio sopra l’osteria.

Nei secoli queste botteghe attraversano un’evoluzione, trasformandosi in rosticcerie o nei take away, oppure anche in luoghi dove ci reca per prendere qualcosa in compagnia, come i moderni bar. Nel diciottesimo secolo in Francia sorgono i primi ristoranti veri e propri, mentre nel resto d’Europa gli esercizi che servono pietanze seguono modelli che non combinano allo stesso modo una cura dell’ambiente e dell’offerta gastronomica.

Negli spacci di bevande alcoliche si servono un po’ ovunque piatti modesti e a buon mercato, preparati sul posto oppure portati da una vicina locanda o bottega di alimentari.

In Spagna si possono degustare tapas nelle bodegas, pies nei pubs inglesi, carni lesse o in umido e frattaglie nelle taverne francesi , mentre piatti della tradizione regionale vengono consumati nelle osterie italiane. Sebbene la tipologia di questi esercizi sia quanto mai varia, andando dalle bettole più sudice a luoghi più dignitosi specialmente in ambito cittadino, sono locali conviviali piuttosto rumorosi e sia loro che i loro esercenti godono di uno status non elevato. ( cosa di cui rimane traccia appunto nel dizionario del Tommaseo)

Un ambiente più raffinato è quello dei caffè, i quali, sorti dapprima a Parigi e quindi anche in altre città europee come Venezia, Vienna, San Pietroburgo e Londra, diventano luoghi alla moda dove la gente si incontra

Per assaggiare piatti cucinati è preferibile recarsi in questo periodo in alcune buone locande, o presso le rosticcerie oppure soprattutto nei trattori francesi o nelle italiane “trattorie”. In Francia, le corporazioni di trattori detengono assieme ai salumieri il monopolio della vendita delle carni cotte ad esclusione dei tortini di carne macinata avvolta in un involucro di pasta, responsabilità dei pasticcieri. Solo il popolo però consuma i pasti all’interno di questi trattori dall’ambiente poco curato, mentre i benestanti scelgono generalmente di farsi consegnare le pietanze a domicilio o presso le foresterie dove sono alloggiati

In Inghilterra, esistevano,  invece,  a partire dal diciottesimo secolo, degli esercizi che si approssimano maggiormente all’istituzione ristorativa: le taverns.

Questi locali sono specializzati nella mescita di vino e non di birra come le più diffuse ale-houses. Destinate ad una clientela di classe sociale superiore, alcune di esse nella capitale sono centro delle vita sociale cittadina, nonché fungono da rinomati posti di ristoro dove la clientela può scegliere le pietanze da un menù composto da piatti inglesi e francesi

Posted in Senza categoria | Leave a comment

la (prima) svizzera artificiale

 

La bistecca artificiale…..

LA GALLINA

………….Percorremmo una fila di corridoi e prendemmo l’ascensore in discesa. Io chiusi gli occhi. Venire giù da quelle altezze era impressionante. Passammo dal quarantesimo piano al piano-terra, e poi giù ancora.

— Salta

— mi disse a un certo punto Gus.

— Siamo arrivati.

— Eravamo dieci livelli sotto terra.

Saltai. Il Reparto Meno Dieci trasudava acqua dalle pareti. Il soffitto era sorretto da immensi piloni. Intricate condutture attraversavano il corridoio nel quale ci addentrammo.

— Lì dentro scorre la soluzione nutriente

— mi spiegò Herrera. Domandai di che cos’era fatto il soffitto.

— Cemento e piombo

— mi rispose.

— Serve a schermare i raggi cosmici.

— Poi aprì una porta.

— Ecco dove nascono i polli Chicken

— annunciò con orgoglio. Io guardai e mi venne la nausea. Eravamo in una immensa cupola quasi tutta riempita dal “pollo” di color grigio- bruno. Decine di condutture passavano in mezzo alla massa di “carne” pulsante. Quel “pollo” era vivo!

— Io passo la giornata qui

— riprese Herrera.

— Sorveglio continuamente la mia gallina, e quando una sua parte si gonfia rapidamente e si vede a occhio che è sana e tenera, taglio via il pezzo.

I miei aiutanti si impadroniscono della porzione, la tagliano in pezzi più piccoli, e li sistemano sui nastri convettori.

— Mi indicò una serie di aperture nella parete, dove sparivano dei nastri mobili.

— Di notte continua la crescita? — mi informai. — No. Di notte l’afflusso della soluzione nutriente viene regolato al minimo. Ogni notte la mia gallina quasi muore, e ogni mattino rinasce a nuova vita, come Lazaro.

— Col suo coltello diede un paio di colpetti affettuosi alla massa palpitante.

— Le vuoi bene!

— esclamai, sbalordito.

— Certo

— disse.

— La mia gallina mi aiuta.

— Si guardò attorno, compì tutto il giro della cupola sbirciando dentro ogni convettore, poi prese un bastone da uno dei tunnel e andò a metterlo contro la porta della cupola, inserendolo fra una scanalatura del pavimento e una sbarra che attraversava il battente. Così la porta era sprangata.

— Ti farò vedere un mio trucco

— mi disse, sorridendo. Con un gesto da prestigiatore tolse di tasca una specie di fischietto che funzionava con una piccola pompa collegata a un minuscolo serbatoio d’aria.

— Lo chiamano il fischietto di Galton, ma chi sia questo Galton non lo so 2 . Guarda, e ascolta. Azionò la pompa puntando il fischietto contro il “pollo”. Non sentii alcun suono, ma rimasi di stucco vedendo formarsi una depressione semisferica nel protoplasma, in corrispondenza di una conduttura. Non ti spaventare

— disse Herrera. P

Premette più forte sulla pompa, e contemporaneamente mi passò una torcia elettrica che io automaticamente accesi. Herrera continuò a dirigere il fischio silenzioso contro il “pollo”, e la massa reagì aprendo in sé una cavità sempre più grande, finché si formò una specie di corridoio a volta il cui pavimento coincideva con quello del locale. Herrera penetrò nel passaggio dicendo:

— Seguimi. …………………… ( da I Mercanti dello Spazio)

 

1962, Phol inventa per primo(?) il petto di pollo artificiale , ambientato in un futuro che forse non va oltre il 2050; un modo per risolvere un problema di alimentazione proteica a basso costo .

All’estremo opposto la soluzione proposta in “ 2022 , i sopravvissuti “. In un mondo che non ha più risorse le proteine vengono distribuite dalla multinazionale Soylent, e sono contenute nell’omonima sostanza (soylent appunto) razionata e distribuita giornalmente dalle autorità .Alla fine del film si scoprirà la sua macabra fonte

Probabilmente anche phol allora era a conoscenza della ipotetica possibilità di produrre carne in vitro.

Il 17 gennaio del 1912 il biologo premio Nobel Alexis Carrel mise il tessuto prelevato dal cuore dell’embrione di un pollo in una soluzione di nutrienti, e lo tenne in vita nel suo laboratorio, al Rockefeller institute, per più di vent’anni. L’esperimento suscitò grande interesse, e la speranza che la scienza potesse assicurare l’immortalità agli uomini.

«Da qui a cinquant’anni dovremmo abbandonare l’assurda idea di allevare un pollo intero per mangiarne il petto o le ali; cresceremo invece queste parti separatamente, in appositi mezzi di coltura » Così , scriveva Winston Churchill nel 1932 nel libro: “ Thoughts and Adventure “

Oggi , almeno teoricamente, la nostra ‘gallina spaziale è disponibile , l’idea originale , anzi l’ossessione ( come dice lui ) è di Willem van Eelen.

Van Eelen venne catturato dai giapponesi che lo fecero lavorare in un campo di prigionia per anni : in malesia : “ Lavoravamo dalla mattina alla sera per costruire piste d’atterraggio. Ci picchiavano come cani. Non c’era quasi niente da mangiare. Con noi i giapponesi erano duri, ma erano ancora più crudeli con gli animali: li prendevano a calci, gli sparavano. Se uno dei cani randagi attraversava il filo spinato, i prigionieri gli saltavano addosso, lo facevano a pezzi e lo mangiavano crudo “

Dopo la guerra studiò psicologia all’università di Amsterdam ma, tormentato dal ricordo della fame e degli abusi sugli animali, cominciò anche a frequentare conferenze scientifiche. Durante un incontro sulle tecniche di conservazione della carne ebbe un’idea: “Mi chiesi: perché non possiamo far crescere la carne fuori dal corpo? Farla in laboratorio, come tante altre cose? A me piace la carne, non sono vegetariano. Ma è difficile giustificare il modo in cui trattiamo gli animali. Produrre carne senza infliggere dolore mi sembrava la soluzione più giusta”.

Van Eelen non ha mai smesso di inseguire il suo sogno, ma ci sono voluti decenni perché la scienza riuscisse a dar forma alla sua fantasia.

Tutto è cominciato nel 1981, quando nei topi sono state scoperte delle cellule staminali in grado di dividersi quasi all’infinito e trasformarsi in tessuti diversi. Van Eelen intuì subito le potenzialità della scoperta, anche se in quegli anni non c’era ancora grande interesse per la trasformazione delle cellule muscolari in carne Nel 1999, ottenne il brevetto statunitense e quello internazionale per la “produzione di carne attraverso coltura cellulare”. Per la prima volta autorevoli studiosi cominciarono a prenderlo sul serio

Van Eelen e H.P. Haagsman, scienziato dell’Università di Utrecht, riuscirono ad ottenere dei fondi dal governo olandese per finanziare un consorzio che intendeva dimostrare che le cellule staminali potevano essere prelevate da animali nelle fattorie, fatte crescere in coltura e indotte a trasformarsi in cellule muscolari. Gli scienziati riuscirono a far crescere piccole strisce sottili di tessuto muscolare in laboratorio – qualcosa che somigliava a pezzi di capesante e aveva la consistenza gommosa del calamaro ­ma rimanevano numerosi ostacoli per la produzione a larga scala. «Alla fine sapevamo molto più di prima. Ma ancora non riusciva­mo a ottenere da una capsula di Petri qualcosa che sapesse di bistecca», racconta Peter Verstrate, che nel consorzio rappresentava la Meester Stegeman e attualmente lavora come consulente.

Van Eelen però non era il solo a immaginare una rivoluzione simile. Nel 2005, un articolo del New York Tìmes » concludeva che tra qualche anno potremmo avere carne prodotta in laboratorio, pronta per essere venduta come salsicce e involtini». Un paio di mesi prima dell’uscita dell’articolo, alcuni ricercatori avevano pubblicato su Tissue Engineering» il primo studio sulle prospettive della produzione industriale della carne coltivata. Tra gli autori c’era la­on Matheny, fondatore di New Harvest, un’organizzazione a favore della carne prodotta in laboratorio.

La carne che cresce in bioreattori, al posto di quella da allevamenti, potrebbe aiutare a ridurre l’impatto ambientale. Hanna Tuomisto, PhD all’Università di Oxford, è coautrice di uno studio pubblicato lo scorso anno sul potenziale impatto ambientale della carne coltivata.

Lo studio ha mostrato che se gli scienziati coltivassero cellule muscolari in una coltura di idrolizzato di cianobatteri, questa procedura farebbe risparmiare tra il 35 e il 60 per cento dell’energia, abbatterebbe delI’80-95 per cento le emissioni di gas serra e userebbe il 98 per cento in meno di terreno rispetto ai siste­mi convenzionali usati in Europa per la produzione di carne.

Oggi il 30 per cento della superficie terrestre libera dai ghiacci è sfruttato per l’allevamento diretto o per coltivazioni a uso animale. Se la coltura di carne in laboratorio diventasse praticabile e si diffondesse, gran parte del terreno agricolo si potrebbe usare per altri scopi, compresa la crescita di nuove foreste, che assorbirebbero carbonio dall’atmosfera.

La carne non dovrebbe più viaggiare per il mondo, perché i centri di produzione sarebbero collocati vicino ai consumatori. Alcuni sostenitori di questa idea prevedono la nascita di piccoli laboratori urbani di carne che vendono i loro prodotti in mercati locali.

«In futuro [questa] sarà l’unica scelta possibile” afferma Mark Post, direttore del Dipartimento di fi­siologia dell’Università di Maastrìcht, «Non riesco a capire come, nei prossimi decenni, si possa solo immaginare di continuare con le vecchie tecniche di allevamento per la produzione di carne».

In teoria, una fabbrica di carne in vitro funzionerebbe più o meno così: si isolerebbero cellule staminali adulte o embrionali da maiali, mucche, polli e altri animali. Le cellule staminali si dividerebbero ripetutamente per mesi e mesi. In seguito si farebbero trasformare le cellule in muscolo

Alla fine, le cellule muscolari dovrebbero «mettere su massa», un po’ Poi si farebbero crescere queste cellule in bioreattori, usando una coltura di origine vegetale. Quando le cellule cominciano a riprodursi formando il tessuto muscolare, verrebbero montate su una sorta di impalcatura biodegradabile. In questo modo il tessuto può essere allungato e modellato a forma di cibo facendo come gli animali che sviluppano la loro muscolatura con il movimento e – almeno in teoria – venduto e consumato come le carni trattate industrialmente da cui si ricavano hamburger e salsicce

In Europa e negli Stati Uni-ti è nata una nuova disciplina scientifica, alimentata da un’insolita collaborazione tra biologi cellulari, ingegneri tissutali, attivisti per i diritti degli animali e ambientalisti. Dopo una partenza incerta, il movimento si è consolidato quando, nel 2001, la Nasa ha finanziato un esperimento guidato da Morris Benjaminson sulla produzione di carne per i voli spaziali. Benjaminson, un bioingegnere del Touro college di New York, ha ta­gliato dei filetti di pesce rosso e li ha immersi in una soluzione nutriente ricavata dal sangue di feti di bovino.

Nel giro di una settimana, i pezzi di pesce sono cresciuti quasi del 15 per cento. Il risultato non era carne, certo, ma dimostrava che produrre carne fuori dal corpo era possibile.

Poi, nel 2004, sollecitato dalle continue pressioni di Van Eelen, il governo olandese ha assegnato due milioni di euro a un consorzio di uni­versità e centri di ricerca di Amsterdam, Utrecht ed Eindhoven. Il fondo era mode­sto, ma ha contribuito a trasformare i Paesi Bassi in una specie di Silicon valley della carne in provetta.Van Eelen non è stato l’unico a non farsi scoraggiare dall’indifferenza.

Anche Vladi­mir Mironov, professore associato presso il dipartimento di biologia cellulare e anato­mia della Medical university of South Carolina, sta cercando una tecnica per produrre carne in provetta. Bioingegnere dei tessuti, Mironov è cresciuto in Russia e ha studiato al Max Planck institute con Werner Risau, pioniere della biologia vascolare. Nei primi anni ottanta si è trasferito negli Stati Uniti, dove ha cominciato a interessarsi alla possibilità di produrre carne in laboratorio. “Qualche anno fa ho cercato di ottenere un finanziamento”, mi racconta nel suo labo­ratorio di Charleston. “Ma non ci sono riu­scito. Allora ho cercato investitori privati. Niente. Ho contattato grosse aziende. An­cora niente. Ma lentamente, un po’ alla vol­ta, qualcosa ha cominciato a muoversi”.Nelle università di tutto il mondo sono nate équipe di ricerca, alcune interessate a migliorare le condizioni di vita degli animali, altre alla medicina rigenerativa, altre ancora alla carne artificiale come possibile soluzione alla crisi ambientale. Tutte, però, hanno un obiettivo comune: produrre carne senza usare animali. E produrne abbastanza per poterla mettere sul mercato. di ricerca, alcune interessate a migliorare le condizioni di vita degli anima­li, altre alla medicina rigenerativa, altre an­ora alla carne artificiale come possibile soluzione alla crisi ambientale. Tutte, però, hanno un obiettivo comune: produrre carne senza usare animali. E produrne abbastan­za per poterla mettere sul mercato. “È un’idea elementare”,dice Ingrid Newkirk, cofondatrice e presidente della Peta (People for the ethical treatment of animals). Tre anni fa quest’associazione, dotata di uno straordinario talento per le pubbliche relazioni, ha messo in palio un milione di dollari da destinare al primo gruppo di ricerca in grado di realizzare “un prodotto a base di carne di pollo prodotta in vitro con il sapore e la consistenza della vera carne di pollo”.

Di recente la Peta ha fornito i fondi necessari per consentire al bioingegnere Nicholas Genovese di lavorare nel laboratorio di Mironov: una specie di borsa di studio a spese dell’associazione. “Se la gente non è disposta a smettere di mangiare enormi quantità di animali”, ha spiegato Newkirk, “allora bisogna potergli offrire carne ottenuta senza gli orrori del mattatoio, del trasporto sui carri bestiame, delle mutilazioni e delle atrocità subite dagli animali negli allevamenti”.

Con il passare degli anni il nostro modo di consumare la carne è diventato sempre più pericoloso, sia per gli individui sia per il pianeta. Secondo la Fao, l’industria globale dell’allevamento è responsabile di quasi il venti per cento delle emissioni di gas serra del pianeta, cioè più di tutte le auto, i treni, le navi e gli aerei messi insieme. Il bestiame consuma quasi il 10 per cento delle risorse mondiali di acqua dolce, e l’80 per cento di tutto il terreno coltivabile è destinato alla produzione di carne.

Purtroppo , oggi , sarà difficile, che qualcuno di noi possa mangiare un hamburger di carne sintetica , almeno sino a qualche mese fa il costo di un Hamburger o di una salsiccia sarebbe stato di circa 300.000 dollari .

Mark Post punta a creare una salsiccia in vitto solo per dimostrare che è possibile. Ha calcolato che costerà 300.000 euro e che terrà impegnati due studenti di dottorato e tre incubatori per sei mesi. «Prenderemo due o tre biopsie da un maiale – spiega – diciamo 10.000 cellule stamìnali. Dopo 20 divisioni dovremmo avere dieci miliardi di cellule».

Gli studenti useranno 3000 capsule di Petri per produrre tanti piccoli frammenti di tessuto muscolare suino, che poi saranno compattati in forma di salsiccia, con spezie e altri ingredienti non animali, per ottenere la giusta consistenza e sapore. Alla fine gli scienziati potranno mostrare la salsiccia vicino al maiale vivo da cui è cresciuta.

«È soprattutto una trovata per generare nuovi fondi, dice Post «Stiamo cercando di dimostrare che da questa ricerca siamo in gra­do di ottenere un prodotto commerciale, Ma avrà il sapore di una salsiccia? «Penso proprio di sì», afferma Roelen, «Buona parte del sapore tipico dei bocconcini di pollo o delle salsicce è artificiale. Per fargli avere quel sapore si aggiungono sale e altri ingredienti.

 

Posted in Senza categoria | Leave a comment

La prima scatoletta ( e l’apriscatole ?)

La prima scatoletta , e il primo apriscatole

Conservare per i tempi di magra, una esigenza presente da sempre , un attività risolta usando tecniche che consentivano agli alimenti di durare nel tempo anche variando le loro caratteristiche organolettiche , il che aumentava o diminuiva la qualità degli alimenti

Il commercio del pesce salato, salato e affumicato si faceva già nell’antico Egitto e presso i Fenici, ed era noto ai Greci e ai Romani..

I Greci amavano soprattutto il prosciutto proveniente dalla Licia, dalla Frigia e dall’Asia Minore, come ricor­da Strabone, mentre i Romani non disdegnavano quello che arrivava dalle Gallie, pur apprezzando anche il prosciutto di Catalogna e della Westfalia

Nell’antica Roma, la strada dei mercanti, la Via Panisperna odierna era appunto intitolata al panis=pane e alla perna=perna sicca=prosciutto).

A Portogruaro, è stato ritrovato un cippo funerario appartenuto a un macellaio sul quale si vede chiaramente l’immagine scolpita di un prosciutto con il suo zampetto.
La conservazione degli alimenti, cioè il complesso di tecniche che permettono di ottenere l’inibizione delle cause di alterazione, precede l’individuazione delle cause stesse (icrorganismi, enzimi e agenti chimici e fisici)
Come metodo di conservazione si sviluppò soprattutto fra i popoli marinari del Nord-Europa (all’olandese William Beukels si fa risalire la scoperta dell’affumicamento delle aringhe nella prima metà del XV secolo, ma si trovano tracce di tale tecnica in documenti inglesi e francesi antecedenti di almeno duecento anni). L’uso di prodotti salati ed essiccati risale al primo millennio d.C. (esistono bassorilievi romani che riportano sagome di prosciutti), il prosciutto di Parma trova tracce di progenitori nel XIII secolo e nel 1500 Bologna era rinomata per i salumi e gli insaccati, mentre la scoperta dello zucchero determina nel XV secolo la nascita dei primi canditi in Liguria. L’impiego di un effetto protettivo di sostanze chimiche naturali (resine e balsami) era noto ai Romani (Vitruvio ricorda che dal cedro si ottiene un olio capace di conservare qualsiasi sostanza; il cuoco imperiale Gabrio Apicio nel suo “De re coquinaria” afferma di sapere conservare la carne con il miele, l’aceto, il sale e la mostarda e Palladio, nel IV secolo, raccomandava di conservare le olive facendone strati compatti colmati con miele, aceto e sale).

Ma qual è l’altro motore che , da sempre favorisce lo sviluppo delle invenzioni e delle tecnologie ? Da sempre la guerra , e nel nostro caso la parte dedicata alla logistica : assicurare ai soldati una quantità sufficiente di cibo e munizioni, assicurare il cibo anche quando questo non si riesce a trovare sul territorio conquistato .

E infatti nel 1804 il direttorio francese mette in palio un premio di 12.000 franchi per chi avesse presentato il miglior progetto per la fornitura di alimenti conservati all’esercito

Risponde, come molti sanno, Appert pasticciere in rue de Quincampoix a Parigi, che dopo numerosi tentativi a partire dal 1796 realizza in un piccolo atélier a Ivry-sur-Seine le prime conserve in vasi di vetro : due le intuizioni fondamentali, il riscaldamento in acqua bollente e la chiusura ermetica del vaso in fase di bollitura. Le stesse che aveva alcuni anni prima individuato l’abate Lazzaro Spallanzani in Italia, senza peraltro darne particolare diffusione, se non in alcuni scritti dei suoi “Opuscoli” e le stesse indicate dallo svedese Scheele per la conservazione dell’aceto (1782).

Ne fa oggetto di una pubblicazione fondamentale, il Livre de tous les ménages, ou l’art de conserver pleusieurs années toutes les substances animales et végétales del 1804, che apre con un assunto sicuramente ottimistico: “Con questo processo, Vi sarà possibile trasferire nella vostra cantina tutto quanto il vostro orto produce in primavera, in estate e in autunno e dopo parecchi anni Voi troverete i vostri alimenti vegetali ancora buoni e sani come quando li avete raccolti e con una certa preveggenza potrete premunirvi per eventuali periodi di indigenza e carestia”

Ma il vetro è scomodo , e si rompe facilmente , e pesa .Occorreva un piccolo passo in più , come sappiamo noi tutti quando scegliamo di conservare in casa i pomodori o la frutta prodotti secondo lo stesso procedimento di più di 200 anni fa : nel vetro ; me se andiamo in campeggio ci portiamo dietro una lattina di pomodoro , o di frutta sciroppata , che si ammacca , ma non si rompe e pesa meno del vetro .

Negli stessi anni (1810) proprio in Inghilterra Peter Durand presenta il brevetto per un metodo di conservazione degli alimenti mediante riscaldamento entro recipienti di latta e viene riconosciuto come l’inventore delle scatole in banda stagnata, impropriamente in quanto in precedenza Dutch aveva proposto contenitori di latta per pesce conservato sotto sale; Durand non sfrutta il brevetto e lo cede a Bryan Donkin e a John Hall che lo perfezionano applicando la saldatura del coperchio a fine cottura. E così, mentre Appert viene osannato in Francia, la sua invenzione trova un interesse particolare al di là della Manica, in quell’Impero britannico, molto più pronto a sfruttare la novità per alimentare le proprie truppe marine in navigazione verso le colonie, di quanto lo sia lo stesso Napoleone nei confronti delle proprie truppe di terra impegnate nella campagna di Russia. L’invenzione di Donkin, sviluppata commercialmente dalla “John Gamble” di Bermondsey, rende possibile nel 1824 la fornitura di diecimila scatolette di vitello arrosto a certo capitano Parry che stava iniziando uno sfortunato e lungo viaggio per trovare un passaggio a mare attraverso il Polo Nord per le Indie. Una di queste scatolette sarebbe stata ritrovata 114 anni dopo ancora intatta e il contenuto giudicato in perfetto stato di conservazione.

 

 

L’invenzione europea trova rapida applicazione oltre Atlantico e già nel 1817 viene aperto il primo stabilimento in Nord-America a Boston e due anni dopo un secondo a New York che inizia la produzione di salmone, granchi e ostriche in scatola. Come si può vedere dai prodotti inscatolati, la prima attenzione venne dedicata a “prodotti d’élite” e solo nel 1853 si ebbe un primo notevole impulso allo sviluppo dell’industria conserviera quando Gail Borden, nel Texas, mise a punto un sistema di conservazione di latte condensato: la richiesta di latte condensato in scatola fu immediata e sorsero molti stabilimenti di produzione. La vera svolta produttiva derivò però dalla guerra civile nordamericana (1861): la necessità di fornire alimenti alle truppe fu talmente elevata che l’industria ebbe una notevole crescita che non si arrestò nemmeno a guerra finita.

Ma anche il montone australiano prodotto trova una destinazione come alimento conservato in scatola e costituisce un’occasione di grande interesse alla Grande Esposizione di Londra del 1851,. È ormai impossibile seguire cronologicamente lo sviluppo dell’industria conserviera nella seconda metà del XIX secolo, ma alcuni nomi sono sicuramente da rammentare: Botany Bay (Nuovo Galles) nel 1875, fabbriche di conserve di carne dei Frigorificos argentini e uruguayani nel 1870, Kidwell a San Francisco e soprattutto James Dole alle Hawai per le conserve di ananas. È in quel periodo che viene forgiata la parola canister, presto semplificata in can, con la quale si individuano le scatolette dei canned foods prodotti dalla canning industry.

In Italia i nomi di spicco ai quali fa riferimento l’industria conserviera della seconda metà dell’Ottocento sono sicuramente Francesco Cirio e Pietro Sada.

Il primo nel 1858 apre a Torino la prima fabbrica di piselli in scatola, mentre il secondo nel 1881 impianta a Crescenzago la prima fabbrica di conserve di carne. Per Cirio (modesto figlio del popolo, ardimentoso suscitatore di energie nei commerci e nelle industrie agricole nazionali, come lo ha descritto, con la prosopopea autarchica del periodo, A. Marescalchi ) si è trattato di un lungo peregrinare al Nord e al Sud d’Italia quasi per diffondere la nuova frontiera della scatoletta e quando nel 1900 egli muore, sul territorio nazionale le fabbriche di conserve sono ormai alcune centinaia.

L’invenzione della scatoletta è così importante che ne 2010 è stato celebrato il bicentenario dell’invenzione della scatoletta E la scatoletta è così importante che è diventata anche un oggetto du culto com era anche originariamente

Da qui si può ben intendere come la grande famiglia delle scatole di latta, alle quali oggi è dedicato un fiorente collezionismo, sia in realtà divisa in due ampie categorie. Quelle “povere”, sigillate,  che  per  svolgere  la  loro  funzione  devono  essere  aperte  e  distrutte,  e  quelle “aristocratiche” per le quali il contenuto è quasi un pretesto e che, anzi, appena vuotate acquistano una più orgogliosa vita propria. E’ facilmente intuibile che il collezionismo riguarda quest’ultimo  tipo  di  scatole,  che  hanno  espresso  il  loro  massimo  splendore  tra  la  fine d ell’Ottocento e la metà del Novecento, e che spesso furono addirittura firmate dalle griffe della pubblicità dell’epoca, da Dudovich a Cappiello

E fin qui va tutto bene .Ma se le scatolette sono state inventate nel 1810 l’apriscatole , quando è stato inventato ? Sorpresa , almeno 30 anni dopo .E dobbiamo tenere conto che trattandosi di una banda di metallo stagnata , fabbricata a mano lo sforzo per aprirla doveva essere non indifferente.

Nel 1858, Ezra Warner di Waterbury, Connecticut, brevettò il primo apriscatole. L’esercito americano lo usò  durante la guerra Civile.

Nel 1866, Osterhoudt depositò il primo brevetto per lattine con apertura a chiavetta. Il grande vantaggio di questo tipo di lattina consisteva nel fatto che, diversamente dall’apertura delle lattine cilindriche brevettate da Peter Durand nel 1810, la chiavetta permetteva di aprire la scatoletta molto accuratamente e senza usare una lama. Per l’apertura della scatoletta si usava appunto una “chiavetta” di metallo, con la quale si sollevava, arrotolandolo all’indietro, il coperchio di metallo. Questo semplice ed efficace sistema condusse a molti brevetti migliorativi del design iniziale.

Dal brevetto depositato nel 1924 da G.A. Leighton, che presentava un punto meno resistente a forma di “X” dove andava inserita la chiavetta e una linea a forma di freccia e meno resistente dove il metallo sarebbe stato sollevato, si capisce perfettamente il funzionamento della “chiavetta”, la quale, dotata a una delle estremità di un gancetto, era inserita nel punto di minor resistenza. Girandola e facendola ruota re indietro seguendo la lunghezza della scatoletta, il coperchio di metallo rimaneva alla fine dell’operazione arrotolato a un’estremità mostrandone il contenuto.

L’inventore della forma più  familiare apriscatole fu William Lyman. William Lyman brevettò un apriscatole molto facile da usare nel 1870. Il tipo con la ruota che rotola e taglia lungo il bordo di una lattina. La Stella Can Company di San Francisco William Lyman  ha migliorato apriscatole nel 1925 con l’aggiunta di un bordo seghettato alla ruota. Una versione elettrica dello stesso tipo di apriscatole è stata ha venduta per  prima nel mese di dicembre del 1931.

E nel periodo che va dall’invenzione della scatoletta a quello che va all’invenzione dell’apriscatole possiamo solo immaginare come e con cosa venivano aperte le scatolette.

Posted in Senza categoria | Leave a comment

I primi spaghetti

Storia della pasta

tra Oriente e Occidente La pasta nel mondo classico

A ponente di Termini (Termini  Imerese, in provincia di Palermo)
vi è un  abitato che si chiama Trabia ( che in arabo significa terra quadrata), incantevole soggiorno con acque perenni e parecchi mulini.
Trabia ha una pianura e noti poderi, nei quali si fabbricano tanti vermicelli (triya) da approvvigionare dai paesi della Calabria,
quelli dei territori musulmani e cristiani  e  se ne spediscono moltissimi carichi per nave…

Quella riportata poco sopra è la prima testimoniata scritta relativa alla produzione di pasta essiccata. ed  è tratta dal Libro : per chi si diletta di girare d mondo, santo dal geografo, arabo Al Idrisi  per Ruggero II di Sicilia finito verso il 1154 ed edito in 9 tomi in Italia (Kitāb nuzhat al-mushtāq fī ikhtirāq al-āfāq), chiamato il libro di Ruggero (Kitāb Rugiār o Kitāb Rugiārī),

Questa di al-Idrisi è in assoluto la prima testimonianza scritta di una vera e propria fabbrica di pasta secca fabbricata per l’esportazione.

Ed il fatto che essa venisse fabbricata in grande copia anche per i paesi mussulmani sta a indicare che fosse di buona qualità. Prima ancora che in al-Idrisi, dettagliate notizie sugli i triya e le ricette per prepararli e cucinarli si trovano negli scritti del medico ebreo di Kairouan, Ishaq ibn Sulayman dell’VIII secolo, e nel Libro della salute del filosofo musulmano Ibn Sina detto Avicenna (980-1036), medico a Bagdad, che li descrive come striscioline di pasta, aggiungendo che in Persia li chiamavano «risha».

In realtà, la pasta accomuna da  tempo immemorabile le popolazioni del Mediterraneo: se la Bibbia, nell’Antico Testamento, cita preparazioni simili a focacce, cotte sulla pietra rovente, l’esistenza di un tipo di pasta abbastanza simile alla odierna sfoglia all’uovo è citata già nella Grecia del primo millennio a.C., dove con il termine Nanna si indicavano delle sfoglie di foga larghe e doveva essere già nota anche agli Etruschi. se nella grotta  “dei Rilievi” o `Grotta Bella” (IV sec. a.C.), a Cerveteri, alcuni rilievi rappresentano una serie di strumenti che ricordano molto  da vicino quelli anche oggi utilizzati nella preparazione della pasta, tra  cui una spianatoia e un matterello

 

Nel 35 a.c il poeta latino Orazio i (65.8 a.C.) così descrive nelle Satire la propria cena : Inde dimum  me ad porri et  ciceris refero laganique catinum”, ossia “quindi me ne torno a casa alla mia scodella di pani. ceci e lasagne”. frugale primo piatto tuttora comune in tutto il Sud dell’Italia.

Nel I secolo a.C. le lagne sono già protagoniste di una preparazione  piuttosto complessa, descritta da Apicio nel IV libro del De re coquinaria , che prevede, più o meno come per le attuali lasagne, che le sfoglie siano alternate a carne, pace, uova e condite con olio d’oliva e pepe.

Sempre Apicio suggerisce, nello stesso libro, di utilizzare pezzetti di pasta sfoglia per dare maggior corpo alle minestre.

Le lagne si diffusero nel corso  dei secoli in tutto il territorio dell’Impero romano, anche se in seguito la disponibilità di materie prime, che cambiava a seconda del luoghi, portò a varianti nella loro composizione. La semola di grano  duro, con la quale la pasta veniva comunemente preparata nel Meridione (i Romani importavano il grano dall’Egitto o dalla Sicilia), era infatti raramente reperibile nelle regioni del Centro-Nord, a causa del clima più umido e freddo, favorevole alla coltivazione del grano tenero: ancora oggi, via via che dal Sud dell’Italia si sale verso il Nord, la cultura della  pasta si caratterizza progressivamente per la maggior presenza di grano tenero e, dall’Emilia-Romagna in su, diventa protagonista la sfoglia preparata impastando la farina con l’uovo.

 

Tornando alle trya  la testimonianza di Al  Idris ci i dimostra che da almeno un secolo in Italia era nota la tecnica per essiccazione il termine trya è già attestata nel mondo arabo dall’accezione di “focaccia tagliata a strisce”, da molti ritenuta una sorta di focaccia non lievitata, cotta in ampi testi .Nel XIV secolo bari indica con questo termine una “pasta”

 

Il procedimento adottato per l’essiccazione della pasta al sole per qualche  tempo, quindi posta in luoghi chiusi. L’ asciugatura al sole eliminava solo l’umidità più superficiale,

L’esposizione al leggero calore del fuoco favoriva l’affiorare dei residui di acqua, permetteva alla pasta di mantenersi per periodi assai lunghi e. come scrive Al Idris e di portarla  verso destinazioni lontane senza deteriorarsi.

Vi è una testimonianza ulteriore della durata nel tempo della pasta siciliana : intorno al 1460 Maestro Martino da Como afferma nel suo ricettario che i maccaroni siciliani “se deveno seccare al sole, et mente facendoli del la luna de agusto…”. ripreso nel 1475 da Mina nel De Honesta voluptate e valitudine (“maxime vero insita). Il vocabolo trie sopravvive in molte ricette come un tipo di pasta filiforme, tirata a mano, (le manate lucane, i selli in Calabria) dal basso Medioevo però la pasta viene che con il termine maccheroni che, già in uso in Sicilia troviamo in uno scritto del poeta tedesco Walter Von der quale parla della predilezione dei Siciliani per i maccheroni

A lungo discusso, l’etimologia della parola maccheroni deriverebbe dal siciliano maecurnmi, a sua volta derivato da maccari , ossia schiacciare , con riferimento all’azione  di lavorare vigorosamente la pasta di semola di grano duro: la semola di grano duro, infatti, a causa  dei minuscoli  granellini di cui è composta. stenta ad imbibirsi di acqua e richiede una lavorazione molto più energica rispetto alla farina di grano tenero

Il Medioevo e la nascita delle corporazioni

Dalla Sicilia la pasta esecrata raggiunse presto la Liguria, grazie agli scambi commerciali via mare tra le due terre: il grano duro importato dalla Sicilia veniva lavoralo sulle coste liguri, dove il clima mite e ventilato costituiva garanzia per la perfetta essiccazione del prodotto lavorato

Ai primi del Trecento la pasta è ormai diffusa in tutta l’Italia del Centro-Nord, come attesta un  documento del 1284 conservato all’Archivio di Stato di Pio, che ci dà notizia della vendita in questa città di vermicelli .

Del 1295, infine, tono le prime norme  relative all’uso di pasta essiccata nel Regno di Napoli, dove la regina Maria, madre del re Carlo d’Angiò (Cado Martello) ne acquistò un consistente quantitativo per un banchetto.

nel 1295, registriamo nel XIV secolo anche la nascita della più antica tra le corporazioni dei pastai: sorta a Firenze riuniva produttori di pasta e fornai. I numerosi produttori genovesi di fidei (fidelini, pasta lunga e filiforme tipo capelli d’angelo) daranno vita insieme con i formaggiai a urna propria corporazione, quella dei Fidelasi. nel 1574, mentre tre anni dopo  sorge l’analoga corporazione di  Savona (Arte dei fidelari, 1577): del 1571 è la nascita dell’Arte delli  vermicellari  napoletana, del 1605 la costituzione della maestranza dei vermicellari di Palermo e, infine, nel 1642 si registra la nascita a Roma dell’Arte e universale  dei Vermicellari, categoria precedentemente associata a quella degli ortolani.

Lasagne, ravioli, maccheroni, vermicelli, gnocchi…: fra Trecento e Quattrocento il ca-talogo delle paste alimentari è già delineato nelle sue componenti fondamentali, come attestano numerosi autori.

Nel 1338 il Compendium de naturis  et proprieratibu s alimentonim di mastro Barnaba de Riatinis (Reggio Emilia) tracciava invece un inventano dei diversi tipi di pasta conosciuti nel Centro-Nord, comprendente “a quibusdam Vermicelli, ut a Thuscis, a quibusdam Orari. ut a Bononiensibus, a quibusdam Minutelli, ut a Venetis, a quibusdam Fermentini, ut a Regiensibus, et a quibusdam Pancardelle, ut a Mantuanis”.

tre ne son piccole e tonde, come quelle che chiamano millefanti, altre ne son piane, ma strette a foggia di fettucce, che son chiamate comunemente tagliolini, altre ne sono cotte e grossette e le chiamano agnolini, altre più lunghe e più grosse, chiamate gnocchi, e ve ne sono di mille altre guise che poca differenza fanno quanto all’essere più o meno sane”. I libri di cassa del 1666 dell’Arte dei Lasagneri di Venezia aggiungono ai formati elencati da Zacchia anche “nenelli e napioli”.

Già dal 1649 la pasta genovese era fatta con semola di grano duro, come è attestato dal verbale di una riunione della Corporazione dei Fidelari, nel quale i consoli discutono di “compre dei grani duri”. Un atto di vendita registrato a Savona nel 1794 ci permette invece di comprendere il processo produttivo dei pastifici dell’epoca, attraverso la descrizione della gramola e del torchio

La pasta industriale  nacque  dunque a Genova, prima ancora che a Napoli; tra le capitali della pasta meritano però un cenno anche Bologna e Palermo. La pasta di produzione bolognese si caratterizzava perché ottenuta da una taglia, per lo più all’uovo, dapprima lavorata a mano poi industrialmente, che veniva tagliata in mille diversi modi: corta per le farfalle o strichetti, o lunga, per fettuccine e tagliatelle che venivano avvolte a nidi. Ancora oggi la pasta sfoglia è parte integrante della tradizione gastronomica emiliano-romagnola, con le sue togline (le abilissime artigiane della pasta fresca)

Per quanto riguarda Palermo, che come abbiamo visto fu la culla della pasta essiccata e sin dal Quattrocento esportava pasta e grano in tutta la penisola, segnaliamo la testimonianza di Goethe, che nel 1787 nel suo Viaggio in Italia racconta di aver alloggiato ad Agrigento (  Girgenti) in casa di un pastaio, dove ha potuto assistere alla lavorazione di maccheroni: “… ci siam fatti spiegare le varie operazioni e apprendemmo così che quella specie di pasta si fa del frumento migliore e più duro, detto grano forte. Occorre del resto più abilità di mano che non lavoro di macchine o di forme. Ci hanno anche imbandito dei maccheroni squisiti, pur deplorando di non poterci servi¬re nemmeno un piatto di quella qualità superlativa, che si trova soltanto a Girgenti… Con tutto questo, la pasta che abbiamo gustato mi è sembrata, per candore e delicatezza di gusto. senza rivali”.

Mangiamaccheroni e mangiafoglie

Nel 1699 la Corporazione dei vermicellari di Napoli assume il nome di Corporazione dei Maccaronari, comprendendo sia i produttori di pasta fatta a mano sia quella fabbri¬cata a macchina, con il torchio e la trafila. Più o meno nello stesso periodo i napoletani, fino ad allora chiamati “mangiafoglia”, cominceranno a essere identificati come “mangiamaccheroni”, primo passo perché Napoli diventasse, come accadrà nell’Ottocento, la capitale indiscussa della pasta industriale.

I vermicellari di Napoli sono tra i primi a dotarsi di uno Statuto: il più antico risale al 1571, ma un bando rivolto ai pastai nel 1546 permette di retrodatare a quell’anno la costituzione della Corporazione.

La pasta rimane penò a Napoli, come in tutta l’Italia meridionale della prima metà del Seicento, un cibo riservato alle classi più abbienti: nel 1620 Giovanbatista Rasile scriveva nelle Muse napoletane: ‘Tre son le cose che la casa strudeno (distruggono ): zeppole Iosa tipo di dolciumi, pane caudo e maccarune”; sempre il Rasile li cita poi tra le leccornie con cui è imbandito il banchetto del re nella fiaba di Cenerentola, contenuta nel Pentamenale

Fino a tutto il XVI secolo l’alimentazione dei napoletani era basata essenzialmente sugli ortaggi: il cibo più popolare era costituito dall’abbinamento pane, cavoli e (anche se poca e più raramente) carne

Gli storici attribuiscono il mutamento nelle abitudini alimentari dei napoletani a un in-sieme di fattori: a un notevole aumento demografico, fece infatti da contraltare nella pri-ma metà del Seicento una diminuzione della disponibilità di carne, oltre alla messa a punto di sistemi che consentivano di produrre la pasta più a buon mercato, come la diffusione della gramola e l’invenzione del torchio meccanica il mercato dei pastai napoletani conobbe così una rapida espansione, grazie anche ai latravi, che fecero della pasta il proprio cibo-simbolo, innalzando il mangiamaccheroni a figura caratteristica della cultura napoletana. Divenuto di uso comune dopo la rivolta di Masaniello (1647), il termine latravo (o Mamme) deriva dallo spappolo lauto, che significa cencioso: si calcola che nel Settecento gli appartenenti a questa sorta da “sottoproletariato”, veri e propri abitanti della strada, raggiungessero le settantamila unità.

I mangiamaccheroni divennero ben presto una sorta di attrazione turistica, soprattutto grazie al loro modo di mangiare la pasta, documentato in un’infinita serie di stampe popolari: con la mano sinistra reggevano il piatto, con la destra sollevavano i fili di pasta e li portavano alla bocca. Nel 1777 la trasformazione era ormai cosa fatta, se l’abate Galliano scriveva alla voce -verdura” del suo vocabolario: “Fu tanta la passione che per la foglia cappuccia ebbero i napoletani nel secolo passato, che ne acquistarono il nome di mangia-foglia. Molti celebrarono le glorie della foglia. Ora restano eclissate dai maccheroni

‘essiccazione

“Il posto occupato da Napoli nella storia degli spaghetti è indiscusso. Benché il loro luogo di nascita o la loro scoperta sia una questione ancora dubbia, si sa invece con certezza dove sia stato scoperto e perfezionato il processo di essiccazione delle paste alimentari…

il vero segreto della pasta napoletana e, almeno fino al 1875, anno in cui comparvero i primi essiccatoi meccanici in Friuli, fu la ragione per la quale i pastifici si stabilirono prevalentemente in località costiere, esposte allo spirare continuo di venti secchi. Sin dal tempo delle trie, infatti, quello dell’essiccazione è un problema decisivo per la conservazione della pasta nel tempo, oltre che per la sua tenuta alla cottura: come abbiamo visto. la semplice esposizione al sole non era sufficiente per prosciugare la pasta anche internamente e il problema fu dapprima risolto ponendola In camere riscaldate per mezzo di bracieri

Nei Fondici napoletani la pasta era essiccata da sempre naturalmente, grazie al vento ponentino  proveniente dalla costa, attraverso una articolata sequenza di tagli , la cui scansione era decisa e controllata dalla figura, divenuta poi quasi mitica, del capo pastaio.

Posted in Senza categoria | Leave a comment

la prima ricetta

Qual è «la più antica del mondo? Nessuno ci può rispondere. Della nostra preistoria ci restano vestigia materiali: residui alimentari, utensili, forni, ma nulla che ci precisi in che modo fossero utilizzati.

Solo i documenti scritti possono darci un’idea di queste «istruzioni per l’uso»: ricette, che costituiscono tutta la cucina.

E siccome la comparsa della scrittura è successiva al III millennio, è soltanto da quest’epoca che possiamo conoscere i più antichi sistemi di gusti e di metodi tradizionali efficaci per trasformare i cibi grezzi in pietanze adatte a quei gusti e da consumarsi nell’immediato.

Fino a quel momento, la più antica raccolta di ricette di cucina era la celebre Arte culinaria (De re coquinaria ) , compilata nel IV secolo d. C., sulla base dell’opera di Apicio, «la più antica cucina» conosciuta era dunque quella dei romani.

In precedenza alcuni greci, in particolare della Magna Grecia, avevano composto, anche loro, delle raccolte gastronomiche Ma tutte queste opere sono andate perdute, a parte qualche breve citazione

Un aiuto ci viene dalla Mesopotamia . È la sede di una grande civiltà, originale ed arcaica, che si è costituita non più tardi del IV millennio; che verso il 3000 a.C., per prima, ha inventato la scrittura.

Di questa non abbiamo quasi per niente ricette, ma dalle tavolette di argilla siamo in grado di stilare un inventario impressionante di derrate che costituivano il rancio degli antichi Mesopotami: cereali, verdure varie, cocco, mele, pere, fichi, melograni, uva , bulbi e radici, -tartufi. e funghi, erbe da condimento, carni grasse e soprattutto bestiame minuto, maiali e pollame, con l’esclusione dei gallinacei, arrivati più tardi, di cui si consumavano anche le uova, e la cacciagione, pesci di mare e di acqua dolce, cheloni, crostacei e frutti di mare e, tra gli insetti, almeno le cavallette; latte, «burro. ed altri grassi animali (strutto, ecc.) e vegetali {sesamo ed ulivo): manne di alberi vari, poi miele d’api per addolcire i cibi e prodotti minerali (sale, cenere?) per dar maggior consistenza al sapore. Tutte queste derrate locali erano così varie che, per quanto ne sappiamo, i Mesopotami non hanno mai, per cosi dire, importato nulla dall’estero, nonostante l’intensità e la vastità geografica del loro commercio prima ancora del III millennio.

Tuttavia, se si accontentavano dei loro prodotti locali, si sono ingegnati a trattarli, trasformarli e prepararli in svariate maniere. All’inizio sapevano conservarli facendo seccare non solo i cereali e i legumi (fave e lenticchie) ma diversi ortaggi e frutta (in particolare il dattero, l’uva ed il fico), e soprattutto la carne ed il pesce, che probabilmente avevano imparato ad affumicare (?) e che, abitualmente, conservavano sotto sale («salata» di pesce, di manzo, di gazzella…). Conoscevano anche l’arte di «conservare» determinati frutti, nel miele, e del pesce, più spesso nell’olio. Avevano messo a punto una salamoia, utilizzata sia come pietanza che come condimento, a base di pesce, di crostacei o di cavallette, che chiamavano shiqqa, simile alla pirsalat nizzarda. Utilizzavano la fermentazione lattica per preparare -.latti acidi» e formaggi freschi. Si era anche sviluppata una tecnica per il trattamento dei cereali: si trattavano con il malto. li si tritava nella macina («tramoggia del mulino.) per farne seme. la e farina, che si poteva ottenere più o meno fine con la setacciatura.

Dal malto si ricavava la birra, bevanda nazionale in questi paesi, dove si conosceva anche il vino proveniente da Nord e da Nord – Ovest.

Per quanto riguarda il fuoco se ne erano mirabilmente serviti. Esponevano i loro cibi alla fiamma o alla brace per cuocerli o arrostirli, e utilizzavano anche alcuni strumenti per modulare il calore di cottura, come la cenere bollente, o tizzoni poggiati sulla brace. Si servivano anche di cilindri verticali in argilla, con le pareti interne ben riscaldate sulle quali si applicavano, per cuocerli, degli strati di pasta non lievitata, come si fa ancora oggi in Oriente, dove anche il nome di questo forno (tann&r) deriva da quello utilizzato dagli antichi mesopotami (tinibir). Essi avevano inventato, all’inizio del III millennio, dei «forni a cupola» che permettevano una cottura meno rozza (calore accumulato dalle pareti e dalla base del forno) e in ambiente umido

In una collezione di documenti cuneiformi appartenente all’Università di Vale, U.S.A., e che aspettano da molto tempo di essere pubblicati, figurano tre tavolette che all’inizio erano state scambiate per prescrizioni farmaceutiche e che dopo un attento esame si sono ben presto rivelate delle raccolte di ricette gastronomiche’. Scritte in lingua accadica, datate all’incirca 1700 a.C., ci rivelano, improvvisamente per un’epoca così lontana, una cucina di una ricchezza, di una raffinatezza, di una tecnicità e di un’arte perfette, che non avremmo, cena• mente, mai osato immaginare cosi avanzate quattromila anni fa.

Per un increscioso effetto della abituale maledizione che colpisce queste venerabili piastrelle d’argilla, seccate o cotte, nessuna delle tre è intatta.

Nella tavoletta con le venticinque ricette, tutte sono a base costante di acqua e di grasso, cucinate molto più spesso »nella marmitta», cioè con una lunga ebollizione: ma a due riprese, per lo meno, e per un ceno modo di brasare si è fatto ricorso al «paiolo». Le differenze tra le prime ventuno e le ultime quattro è che se ovunque la carne rientra nella composizione del piatto, queste ultime vi aggiungono un ortaggio, eccetto forse l’ultima dove la carne non compare affatto.

Ciò che le differenzia sono nello stesso tempo gli elementi di base, le diverse operazioni previste per la cottura e la presentazione del piatto, e soprattutto i molteplici condimenti che ne diver­sificano il gusto.

Tra questi ultimi, quelli più frequentemente utilizzati, che ricorrono più ostinatamente in tutte le ricette, in alcuni casi addirittura in dose doppia, sono gli agliacei, in particolare il ben conosciuto trio: aglio, cipolla e porro, che sembra abbiano fatto le delizie del palato di quei vecchi golosi. Tuttavia se ne trovano anche altre, che non sempre riusciamo ad identificare con sicurezza: mostarda (?), cumino (?), coriandolo (?), menta (?) e bacche di cipresso per esempio; sbubutinnu e samidu, che dovevano essere degli agliacei (ancora!), ed altri, come il sunartmu, a proposito dei quali non siamo neppure in grado di fare delle valide congetture.

Diversi prodotti cerealicoli: semole, farine, orzo (1) malto (spesso impastato a mo’ di torta), erano utilizzati per rendere il liquido più denso e grasso. E a questo stesso scopo talvolta si aggiungeva anche del latte, della birra o del sangue.

Si utilizzava il sale, ma, sembra, non sistematicamente, e pare che ceni piatti traessero il sapore dai loro ingredienti e dalle erbe da condimento

Ogni ricetta comincia (come le nostre) con la sua intestazione: il nome del piatto, derivato dalla sua componente essenziale o dalla sua presentazione, costantemente preceduto dal termine generico rné, alla lettera: «acqua», in realtà qualcosa come «brodo», o piuttosto «bollito» (visto che tutto il conte­nuto del piatto, e non solo il liquido, veniva effettivamente consumato), o anche «salsa»: tutto dipende dalla consistenza e dalla oleosità del liquido al suo stato finale, che ignoriamo.

Ecco così un «bollito di carne», un «bollito di cervo», uno di «gazzella», uno di «capretto», uno di «agnello», uno di «montone», uno di «piccione» ed uno di «uccelli chiamati tomi.; ma anche a seconda del pezzo: un «bollito di cosciotto» e un «bollito di milza». Si trova anche un «bollito alla mostarda (?)» ed un «bollito al sale»; «un bollito rosso», un «bollito chiaro», un «bollito agro (?)». Per due volte il nome sembra ispirato all’origine straniera del piatto: un bollito «assiro», proveniente dalla parte settentrionale del paese, e uno «elamita», preso in prestito dai vicini, quegli elamiti che occupavano la pane sud-occidentale dell’Iran. In quest’ultimo caso, alla fine della ricetta, ci viene precisato anche il nome del piatto nella sua lingua d’origine: vikanda. Per le ultime quattro ricette il titolo è stato fornito dal nome dell’ortaggio principale: per esempio «rape» (è il solo, salvo errori, che sappiamo tradurre).

Sembra che spesso si aggiungesse alla carne di base ,che poteva essere un animale intero, il piccione, o addirittura più d’uno: i rana, o un pezzo, spesso non specificato ma talvolta indicato chiaramente: la coscia, e volentieri la (»rotella, la milza e diverse perii interne — e quasi sempre alle verdure, un pezzo di carne non sempre specificato, ma che si suppone fosse conosciuto dalla gente del mestiere, e che doveva essere del montone. Ma il verbo accadico che ne indica la presenza è ambiguo: ivaz può voler dire «deve essere presente» nel piatto, o «deve essere diviso», «tagliato a pezzetti». Alcuni indizi mi fanno propendere, per il momento, per il primo significato, per esempio il fatto che alla fine delle diverse ricette che cominciano precisamente con questo izzaz applicato alla carne, si trova la formula: «da presentare al taglio», per suggerire che il lavoro del cuciniere è terminato c che, prima di essere degustato dai commensali, il piatto deve essere «tagliato a pezzetti», come faceva in altri tempi lo «scalco».

Alcune ricette

Bollito di carne.

Occorre della carne. Si prepara l’acqua. Si mette del grasso. Del… parola è andata perduta), del porro e dell’aglio pescati insieme. e del sbuhutinnu naturale.

Bollito rosso.

Non c’è bisogno della carne. Si prepara l’acqua. E si mette del grasso. Coratella. trippa e ventre. Sale, malto a granelli, cipolla, samidu, cumino, coriandolo, porro, mrummu, pestati insieme. Prima di essere messa sul fuoco (.in una marmitta»), la carne sarà stata macerata nel sangue messo da pane (dell’animale sacrificato per il piatto).

Ecco adesso una ricetta molto più lunga (quarantanove righe contro 1e undici della precendente. Dato che è più lacunosa, molto complicata, almeno ai nostri occhi, ed il fatto che manchi la punteggiatura (sconosciuta nella scrittura cunei. forme) non semplifica le cose, è meglio parafrasarla un po’ per tentare di darne, almeno, un’immagine sufficientemente chiara, ma che evidentemente non garantisce totalmente un certo numero di dettagli: è tutto quello che si è potuto ricavare, allo stato attuale della nostra conoscenza, da un documento talmen­te nuovo, isolato ed inatteso. L’inizio è andato perduto, ma si capisce che si trattava di preparare degli uccelletti a indicati allora con il loro nome. Il piatto sembra essere preparato in diverse fasi.

All’inizio c’è la preparazione dei pezzi:

Si eliminano la teste e le zampe; se ne apre il corpo per tirar fuori (con tutto il resto) vermiglio e coratella. Si tagliano i vermi­gli, che vengono puliti. Poi si sciacquano i corpi degli accentui, che vengono schiacciati

Si deve operare allora una prima cottura.

Si prepara un paiolo nel quale si dispongono, insieme, uccellet­ti, ventrigli e coratelle, e si mette il tutto sul fuoco (con o senza liquido o materia grassa? Non viene detto; il procedimento era senza dubbio usuale nel ‘mestiere.). Poi (dopo una prima esposizio­ne al calore, ebollizione o cottura) si toglie il paiolo dal fuoco.

Segue quindi una seconda cottura o se si vuole il secondo tempo della cottura.

,Si sciacqua con acqua fresca una marmitta; si versa del latte ‘battuto’ e la si mette sul fuoco. Si toglie il contenuto del paiolo ventriglio e coratella/: si asciuga il tutto: si eliminano le parti non commestibili, si sala e si mette il tutto nella marmitta, aggiungendo al latte un po’ di grasso. Si aggiunge pure della ruta precedentemente pulita. Al momento della bollitura si aggiunge nella marmitta un trito (?) di porro, aglio, samidu e cipolla (quattro agliacei)., ma, precisa il testo ,senza eccedere con la cipolla

E «si aggiunge ancora un po’ d’acqua.. Durante la cottura bisogna preparare gli ingredienti necessari alla presentazione del piatto. «Si sciacqua del grano macinato, lo si stempera nel latte e lo si incorpora, imputandolo, con della salamoia da condimento (sbiqqm), del samidu, del porro e dell’aglio, con quanto basta di latte ed olio per ottenere una pasta (sufficientemente) fluida, che si espone per un momento al calore del fuoco (?). Si divide allora in due pastoni……Qui il testo è assai poco comprensibile …………..

…………uno dei pastoni servirà a fare del pane non lievitato.

Quello che si deve utilizzare è prima lasciato un po’ in una mentine, con del latte affinché lieviti (?) (il che supporrebbe che nel frattempo si sia introdotto del lievito)

Poi lo si riprende per occuparsi della preparazione del piano, in vista della sua presentazione in tavola:

Si prende un piatto abbastanza grande per contenere (tutti) gli uccelletti: lo si riveste con la pasta preparata, facendo attenzione che superi un po’ i bordi del piatto

Si pone il tutto, per cuocerlo, sul forno.

Quando è terminata la cottura della pasta, si toglie il piatto, che si cosparge di un altro trito di tre o quattro agliacei, tra i quali gli inevitabili aglio e cipolla.

La pasta così cosparsa, si dispongono gli uccelletti cotti e, al di sopra, la coratella e i ventrigli. Si bagna il tutto con della salsa. Si copre con un coperchio e si manda in tavola.

Quasi tutte le ricette di quella che viene oggi considerata la più antica raccolta culinaria conosciuta – risale circa al XVII secolo a.C. – si concludono con una formula che segna l’ulteriore tappa del piatto debitamente preparato: «portare a tavola» o, più spesso. «pronto da servire», o più alla lettera «da presentare al coltello», l’unico utensile messo allora a disposizione dei commensali per maneggiare le vettovaglie.

Una volta conclusosi il ruolo dello «chef», entrano quindi in scena i commensali

Posted in Senza categoria | Leave a comment

Il primo (cuoco da Antony Boucher)

IL PRIMO (Cuoco )di Anthony Boucher

— Audace fu quell’uomo — scrisse il diacono Jonathan Swift

— che per primo mangiò un’ostrica.

— Un uomo, potrei aggiungere, con cui la storia della civiltà ha un debito enorme

– se non fosse che ogni debito è stato totalmente ripagato da quel momento di estasi che, primo fra tutti gli uomini, poté assaporare.

Figure altrettanto epiche sono state innumerevoli nella storia di questo pianeta; pionieri le cui imprese sono paragonabili alla scoperta del fuoco, e probabilmente superiori all’invenzione della ruota e dell’arco.

Ma nessuna di queste leggendarie scoperte (salvo forse quella dell’ostrica) può vantare un’importanza rimasta inalterata fino ai giorni nostri, tranne un unico, irripetibile, ancor più momentaneo episodio, verificatosi agli albori della storia dell’Uomo.

E questa è la storia di Sko.

Sko se ne stava accoccolato all’imboccatura della caverna, fissando la pentola dello stracotto. Un’intera giornata di caccia aveva fruttato quell’unica pecora decrepita. Aveva passato gran parte di un altro giorno a far cuocere lo stufato,

mentre la sua donna conciava la pelle, accudiva ai bambini, nutriva i più piccoli con l’alimento del petto materno che non richiedeva caccie faticose. E ora tutto il resto della famiglia sedeva in fondo alla caverna, con la bocca e gli stomaci che mugolavano dalla fame, dal disgusto per il cibo e dalla paura della morte che viene per mancanza di cibo, mentre lui solo mangiava la carne ovina stracotta.

Era insipida, monotona, repellente al gusto. Lui aveva i suoi buoni motivi per mangiarla, ma non poteva dar torto alla famiglia. Nove mesi e nient’altro che pecora o montone. Gli uccelli erano volati via da tempo. Gli altri anni erano soliti ritornare; chi sa mai perché tardavano tanto quest’anno. Presto i pesci avrebbero risalito ancora il fiume, se quest’anno era come gli altri; ma chi poteva esserne certo? sembrava un anno così diverso.

Adesso chiunque mangiava cinghiale o coniglio moriva in breve tempo, e quando si facevano i Sacri Tagli di rito gli si trovavano dentro strani vermi. L’Uomo del Sole aveva detto che era ora un grave peccato contro il Sole nutrirsi del cinghiale e del coniglio; e questo era evidentemente vero, perché i peccatori ne morivano.

Pecora o fame; carne di montone o morte. Rigirò penosamente il grosso boccone in bocca, continuando a riflettere. Lui riusciva ancora a imporsi di mangiare; ma la sua donna, i suoi figli, il resto del Popolo… Uno poteva ormai contare le costole degli uomini, e i bambini più piccoli avevano grandi occhi e niente guance sulla faccia, e ventri come lisce pietre rotonde. I vecchi non vivevano più a lungo come un tempo, e anche i giovani si presentavano davanti al Sole senza ferite di uomo o di belva da mostrarGli. Il cibo-che-non-richiede-caccia diventava ogni giorno più scarso e acquoso nel petto delle donne; e Sko poteva ormai battere facilmente nella lotta tutti quelli che poco tempo prima lo atterravano senza sforzo.

Il Popolo era ora il suo Popolo, perché lui poteva ancora mangiare; e poiché il Popolo era il suo Popolo, lui doveva continuare a mangiare. Era quindi come se il Sole stesso gli chiedesse di trovare un modo per far sì che il Popolo mangiasse ancora, mangiasse fino a ritornare alla vita.

Lo stomaco di Sko era ormai pieno, ma la bocca se la sentiva ancora vuota. Eppure c’era stato un tempo in cui, benché lo stomaco fosse vuoto, la sua bocca era stata fin troppo piena. Cercò di ricordare. E allora, mentre si leccava le labbra cercando di richiamare quella sopita sensazione, improvvisamente riemerse in lui il ricordo.

Fu all’epoca dell’Estate Secca, quando il fiume si era prosciugato e tutte le sorgenti erano morte, e gli uomini erano partiti verso il Sole nascente o il Sole morente per trovare nuova acqua. Lui era stato uno di quelli che l’avevano trovata; ma aveva dovuto spingersi troppo lontano. Non potendo soffrire la carne secca di cinghiale che portava con sé (non era un peccato allora), aveva fatto uso di tutte le sue frecce, e si trovava ancora lontano da casa e aveva bisogno di mangiare. Mangiò così alcune delle cose che crescevano dal terreno, come gli animali, e alcune erano abbastanza buone. Ma poi aveva estratto dalla terra un bulbo, che era diviso in molti piccoli spicchi;

e uno di questi spicchi, uno soltanto, gli aveva riempito la bocca di un gusto così forte che non riuscì a sopportarlo e dovette bere quasi tutta l’acqua che aveva portato con sé per dimostrare il suo successo. Ricordava ancora quel sapore pungente.

Brancolò con la mano nel buco a fianco della caverna che era il suo ripostiglio. Vi trovò il resto di quel bulbo che s’era portato dietro in ricordo del luogo lontano che aveva visitato. Tolse un po’ della pelle bruno-violacea, secca e scricchiolante, nettò uno degli spicchi bianco-giallastri e lo annusò. Persino l’odore riempiva un po’ la bocca. Soffiò forte sulle braci, e quando la fiamma si risvegliò e la pentola riprese a bollire, buttò dentro lo spicchio con un pezzo di carne di pecora. Se una riempiva lo stomaco e non la bocca e l’altro la bocca e non lo stomaco, può darsi che insieme…

Sko implorò il Sole di fare in modo che la sua’ congettura risultasse giusta, per il bene del Popolo. Poi lasciò bollire la pentola senza pensare a nulla per qualche tempo. Alla fine si alzò, tagliò via un boccone dallo stufato e lo addentò. La bocca si riempì un po’, anche se meno di quanto sperava. Ed ecco che un lampo improvviso si accese in lui e ricordò qualcos’altro che poteva riempire la bocca.

Si diresse a passo sostenuto verso il Posto-che-si-lecca,

che la tribù condivideva con le pecore e altri animali. Ne tornò poco dopo con una bianca crosta cristallina. La lasciò cadere nella pentola, e mescolò con un bastone, continuando a guardare finché la crosta non sparì. Lasciò ancora bollire il tutto per un po’, quindi addentò un altro boccone.

La sua bocca ora era veramente piena. L’aprì ancora e da quella pienezza sgorgò, rimbombando nella caverna, l’urlo che significava cibo! Fu la moglie a uscire per prima. Vide solo la solita pentola di stracotto di pecora e stava per tornare sui suoi passi, quand’egli l’afferrò, la costrinse ad aprire la bocca e ci cacciò dentro un grosso boccone della nuova pietanza. Lei lo fissò per un lungo momento di silenzio. Poi le sue mascelle cominciarono a lavorare freneticamente, e solo quando non rimase più nulla da masticare, lanciò l’urlo del  cibo ! per chiamare i bambini.

Ci sono altri Posti-che-si-leccano in giro, pensò Sko, mentre loro mangiavano; e si può organizzare una squadra per andare a prendere altri bulbi dove ho preso questo. Ce ne sarà abbastanza per tutto il Popolo… Nel frattempo la pentola era stata vuotata, e Sko Fyay e la sua famiglia sedettero a leccarsi le dita.

Dopo migliaia di generazioni di cuochi, sale, aglio e fame hanno complottato per creare il primo chefdell’umanità.

Titolo originale: The First – © 1952 Anthony Boucher.

Posted in Senza categoria | 1 Comment

cibo e classi (sociali)

Il cibo divenne un discriminatore sociale – indicatore del ceto, misura della condizione – nel momento, remoto e non documentato, in cui alcuni individui cominciarono a richiedere più risorse alimentari di altri. Avvenne presto. Non vi fu mai un’età dell’oro di eguaglianza, nella storia dell’umanità: la diseguaglianza è implicita nell’evoluzione. Ovunque sopravvivano resti di ominidi in quantità sufficiente e in uno stato di conservazione tale da permettere di trarre delle conclusioni, si riscontra­no differenze nei livelli di nutrizione di quella che appare essere una stessa comunità. Le sepolture del Paleolitico mostrano, in molti casi, una correlazione tra livelli di nutrizione e segni onorifici. Nei primi sistemi umani di suddivisione sociale a noi noti, il cibo svolgeva un ruolo di distinzione.

Senza dubbio l’avvento della cottura aumentò il pregiudizio in favore dei lauti pasti: essa ha infatti l’effetto equivoco e insidioso di rendere piacevole l’atto del mangiare e diviene, così, una tentazione per la gola, una strada in discesa verso l’obesità .

La certezza è impossibile, visto lo stato imperfetto di molte tra le testimonianze più antiche, ma l’avvento di modalità culinarie socialmente discriminanti si produsse con ogni probabilità relativamente tardi nella sto­ria e, fino a un’epoca considerevolmente recente, solo in talune parti del mondo.

La quantità importava più della qualità. Un appetito gigantesco era considerato, in genere, segno di prestigio in quasi tutte le società, in parte perché era indice di forza fisica, in parte, forse, perché poteva essere soddisfatto solo con la ricchezza

L’abbondanza di cibo è parte della dotazione di ogni paradiso terrestre e anche di qualche paradiso celeste, come quello che attende i martiri musulmani o il Walhalla vichingo, con i suoi banchetti.

Un consumo eclatante funge da generatore di prestigio, in parte semplicemente perché è eclatante, ma in parte anche perché è utile. La tavola del ricco rientra nel meccanismo della distribuzione della ricchezza: la sua domanda attira fornitori, le sue eccedenze nutrono gli indigenti.

La condivisione del cibo è una forma fondamentale di scambio donato, cemento delle società; le catene di distribuzione degli alimenti sono legami sociali: creano rapporti di dipendenza, spengono rivoluzioni e tengono le classi che ne usufruiscono alloro posto

I banchetti reali della Mesopotamia fungevano originariamente da mezzi di distribuzione del cibo secondo una gerarchia di privilegio stabilita dai re. Come ogni altra cosa nel mondo assiro, acquisirono proporzioni spropositate allorché il sistema imperiale si sostituì a quello delle città-stato. Quando Assurnasirpal II (883-859 a.c.) completò il palazzo di Kalhu, diede un banchetto che durò dieci giorni, con 69574 invitati. Il menu prevedeva 1000 buoi grassi, 14000 pecore, 1000 agnelli, centi naia di cervidi di diverse specie, 20000 piccioni, 10000 pesci, 10000 gerboe e 10 000 uova.

Nell’Edda poetica, gli eroi Loki e Logi si sfidano a un’ abbuffata: vince il secondo, ingollando tutta la carne, le ossa e pure il vassoio.8 Queste eroiche mangiate non erano considerate un atto di egoismo È sorprendente come la straordinaria quantità di cibo servita -e talvolta consumata persista quale un indice di status

Una tavola imbandita restò segno di prestigio sociale, in Occidente, per tutto il XIX e fino agli inizi del xx secolo, con le crescenti possibili tà di variare il menu che contribuivano a moltiplicare il numero di portate. Tuttavia, nel tono satirico di certe descrizioni, si coglie un atteggiamento ambiguo.

Il ménage domestico dell’ arcidiacono Grantly di Trollope non dimostra solo il suo benessere economico, ma anche la sua mondanità.

“  Le forchette d’argento erano così pesanti da riuscire fastidiose alla mano, mentre il cestino del pane era di un peso veramente formidabile per ogni persona men che robusta.

Il tè era del migliore, il caffè del più nero, la crema della più densa; v’ erano crostini asciutti e crostini imburrati, focaccine di più specie, pane caldo e pane freddo, pane bianco e pane scuro, pane fatto in casa e pane del fornaio, pane di frumento e pane d’avena: e se ci sono al¬ tri tipi di pane oltre questi, erano là; e v’ erano uova in sa1vietta, e pezzi di lardo croccanti sotto coperchi d’argento; v’ erano pescio1ini in una scato1etta e rognoni arrostiti che s’arricciavano su un piatto a bagnomaria e, tra pare tesi, erano collocati nelle immediate vicinanze del piatto del degno arcidiacono.

E sopra tutto questo, su una tovaglia bianca come la neve stesa sulla credenza, v’ erano un enorme prosciutto e un enorme lombo, il quale ultimo aveva rallegrato la tavola della cena la sera precedente.

Tale era la dieta ordinaria di Plumste ad Episcopi.

Dunque la grande quantità è un tratto storicamente importante dell’alimentazione d’élite: ingordigia e spreco costituiscono una forma diffusa di sfoggio aristocratico, le abbuffate eroiche sono gesta esemplari.

Tuttavia, la mera quantità non poteva rimanere il solo criterio distintivo di una dieta prestigiosa: il gusto ha un effetto nobilitante non meno dello spreco e nell’evoluzione sembra essere programmata anche una selezione qualitativa. In confronto a quello di altri primati di dimensioni simili, il regime alimentare degli esseri umani ha un’ elevata qualità nutrizionale per unità di peso.19 Poi c’è la varietà che, come la qualità, caratterizza la dieta dei ceti alti e può essere anche un bisogno di matrice evolutiva, l’ideale di una specie onnivora. Come ha detto l’incomparabile critico gastronomico Jeffrey Steingarten, «i leoni morirebbero di fame in un’ insalatiera, e le vacche in una steak -house, ma noi no»

La varietà dell’ alimentazione è funzione della distanza: raggiunge proporzioni impressionanti allorché i prodotti di climi diversi e di diverse econicchie si ritrovano sulla stessa tavola. Per gran parte della storia, il commercio a lungo raggio è stato una avventura rischiosa, costosa e su scala limitata: perciò la varietà della dieta è divenuta un privilegio legato alla ricchezza o allo status sociale.

Ci sono tre modi per riconciliare gli ideali di austerità ed eccesso.

Il primo si applica selezionando cibi scelti, rari o francamente bizzarri abbastanza appariscenti da nobilitare il pasto anche In piccole quantità.

Il secondo consiste nella preparazione elaborata di quantità modeste. Entrambi i metodi incoraggiano quel che oggi viene chiamato “foodismo”: la competenza da intenditore di chi a prima vista «di un riccio [di mare sa] rivelare la spiaggia» e  che rende esoterico l’atto del mangiare.

Il terzo modo prevede la definizione di particolari regole di .etichetta che possono essere praticate solo da iniziati prescelti  : I mangianti non sono più legati a specifici alimenti, serviti in grandi quantità o preparati secondo modalità particolari: non conta ciò che si mangia, ma come lo si mangia.

Di grande effetto può essere lo spettacolo di piatti fuori stagione, altra caratteristica dell’ alimentazione aristocratica che allude all’ eroismo come sfida alla natura.

Un grande cuoco del XVII secolo invitava, in malafede, i lettori del suo libro di cucina a non stupirsi se, talvolta, avesse inserito nelle ricette alimenti «come per esempio sparagi, carciofi, piselli [...] nei mesi di genaro e febraro, e cose simili che prima faccia» parevano «contro stagione». Bartolomeo Stefani, lo chef dei Gonzaga, signo­ri di Mantova, scriveva in realtà al preciso scopo di épater les burgeois che avrebbero acquistato il suo ricettario: si vantava di realizzare piatti che richiedevano «buoni destrieri e buona borsa».

Più comunemente, il cibo del povero viene imposto dal ricco. Persi nei meandri dei vari menu socialmente differenziati, è facile dimenticare la grama verità  .. che, per gran parte della storia, «le diseguaglianze nutrizionali di  matrice sociale erano letteralmente una questione di vita o di morte».

Uno dei provvedimenti assistenziali per cui si rese celebre Pietro III d’Aragona fu di far mettere da parte vino inacidito, pane raffermo, frutta marcia e formaggio ammuffito per le elemosine.

Secondo una vecchia canzone dei mietitori romagnoli, «E’ gran a e’ patron, a e’  cuntaden la paja» (Il grano al padrone e al contadino la paglia).

E come Baldassarre Pisanelli, medico del tardo Cinquecento, garantiva ai lettori «il poro è pessimo cibo [...] che si deve dare ai villani», i quali, per il proprio bene, farebbero meglio a evitare la dieta di chi sta più in alto di loro: l’unica controindicazione del fagiano è che provoca l’asma nei «rustici»; queesti ultimi dovrebbero astenersi dal mangiarlo, lasciandolo a gente più nobile e raffinata.

L.e cucine cortesi. hanno spesso ingredienti distintivi, preclusi agli outsIder, come I cigni Inghilterra e il vino di miele in Etiopia.

Gradualmente, però, in quasi tutti i casi conosciuti, la distinzione sociale non è più solo questione di quali cibi vengano mangiati, ma anche di come siano preparati. Messisbugo, l’arbiter elegantiarum toscano della metà del XVI secolo, distingueva le ricette degne dei «grandi principi» da quelle per «uso ordinario»: gli ingredienti erano essenzialmente gli stessi, ma, nelle occasioni speciali, il numero di spezie aumentava decisamente.

Ai poveri della Parigi in via d’industrializzazione del XIX secolo si consigliava di comprare un grasso ottenuto da scarti di burro sgocciolature di arrosti, adipe di suino o di pollame. Difficilmente c’era altro da scegliere. In La France gourmande (1906), Fulbert-DumonteIl raccomandava avanzi di carne mischiati in crocchette – «fan profumare l’intera casa» – guarnite con fettine di tartufo cotte nello champagne.

I confini tra uno stile alimentare e un altro a vari livelli della società possono, in circostanze eccezionali, rimanere immutati per secoli in¬ trappolati in continuità che tutti i contatti e gli scambi possibili no; riescono a scardinare. In Emilia, secondo la voce più autorevole sulla storia culinaria di questa regione, La cucina “grassa”, così come un cliché turistico-gastronomico molto approssimativo tende a reclamizzare, è convenzione al limite della mistificazione, mito gastronomico e non verità alimentare, topos e luogo comune, non realtà. La cucina “storica” [...J degli emiliani è un'altra: [...J semplice e rozza e di gusto primitivo, quasi di fondo barbarico

All'inizio del XX secolo, i contadini mangiavano più o meno le stesse cose che ai tempi di Gregorio Magno.

Il pasto tipico di una famiglia d'epoca longobarda, in inverno, comprendeva pane, minestra e una spessa focaccia di fava e panìco, condita con grassi animali o d'olio, il tutto annaffiato da una cospicua quantità di vino. Il menu d'epoca moderna, nella stessa stagione, non variava di molto: la minestra poteva contenere pasta o fagioli, era cotta in acqua con l'aggiunta di lardo o cipolle per insaporire e accompagnata da un' aringa o lardo, insieme a una fetta di polenta. «La cosiddetta cucina aulica [...] da molti attribui¬a a Bologna, non è stata mai conosciuta dalla maggioranza dei bolognesi: la besciamella, per esempio, citata fino alla noia come qualità

esemplare dell’anima cucinaria bolognese portata al “morbido”, al “le¬ato”, all’ “amalgamato” , all’ “aromatizzato” , il popolo di questa città non l’ha mai conosciuta. [...] Parsimoniosa e sobria, la gente bolognese si nutriva senza troppe finezze e delicatezze.” Nella regione, la minestra è detta “biada dell’uomo” .»62

Ormai la situazione, naturalmente, è cambiata, ma persino quand’era prevalente non era tipica del modo in cui gli alimenti modificano di solito il loro profilo sociale. Essi mutano di posto nella gerarchia dell’accettabilità sociale con facilità e rapidità strabilianti. A volte, il mutamento è indotto da una variazione della disponibilità: l’allevamento in batteria del XX secolo privò il pollame d’ogni valore di rarità nel mondo occidentale. Ostriche e merluzzo, d’altra parte, sono balzati più in alto nella scala sociale al diminuire delle rispettive aree di riproduzione. Talvolta entrano in gioco i semplici meccanismi della moda: il giudizio favorevole di qualche celebrità, il fascino del nuovo, le oscillazioni di ciò che è considerato chic.

Persino i cambiamenti lenti – o quelli che noi riusciamo a individuare solo a lungo termine – ci sorprendono per la loro portata. I palati colti, nell’ antica Roma, erano ghiotti di consistenze vischiose: il prestigio di ghiandole e guanciale di suino, di zampetti gelatinosi, fegati congestionati dall’ipertrofia, funghi, lingue, coppa, cerghiandole e guanciale di suino, di zampetti gelatinosi, fegati congestionati dall’ipertrofia, funghi, lingue, coppa, cervelIa, animelle, testicoli, mammelle, midollo è confermato in modo incontestabile, non solo dalla frequenza con cui compaiono nelle ricette giunte fino a noi, ma anche dal fatto che quasi tutti divennero oggetto di leggi suntuarie.63 Il/aie gras era già una delicatezza al tempo di Omero, a giudicare dall’ orgoglio con cui Penelope dichiara «in casa mi bec¬cano il grano venti oche».64 Per un’ esperienza d’élite, i romani dovevano ricorrere alle frattaglie, ma tale preferenza non fu mai pienamente recuperata quando il Rinascimento riscoprì la cucina di Roma, ed esse sono rimaste cibo da poveri fino a un’epoca recente

Il pane bianco e quello integrale si sono scambiati profilo sociale in un modo che stupirebbe certamente gli antropologi di un altro pianeta. Il primo ha goduto della stima universale per gran parte della storia, in quanto pareva incarnare la raffinatezza: rispetto ai suoi “cugini” nero e integrale, è il prodotto di un processo più lungo, implica maggior lavoro, più scarto e ha un sapore più delicato.

Spesso richiede cereali di qualità superiore, ovvero più costosa. Nell’XI secolo, Gregorio, vescovo di Langres, faceva penitenza mangiando pane d’orzo.66 Secondo un sermone di Umberto dei Romani, nel momento dell’ammissione all’ordine, un converso a cui venne chiesto: «Che cosa desideri?», rispose: «Pane bianco, e spesso! »

Posted in Senza categoria | Leave a comment