l’invenzione della cucina

Caso pressoché unico nel repertorio della moderna cucina occidentale, l’ostrica viene consumata senza essere cotta né uccisa.

E’ quanto esiste di più vicino al cibo “naturale”, il solo alimento che merita di essere definito au naturel senza ironia.

Ovviamente, quando la mangiamo al ristorante, la sua conchiglia è stata forzata e aperta con tutto l’armamentario messo a disposizione dalla civiltà, da un professionista specializzato munito di apposita tecnologia: un rituale inviolabile e ammantato di eleganza.

Prima ancora, è stata allevata sott’acqua su un supporto di pietra o un traliccio di legno, in banchi, cresciuta per anni sotto occhi esperti e raccolta da mani sapienti: non staccata da uno scoglio come un bottino sottratto alla natura. E tuttavia è il cibo che ci lega a tutti i nostri antenati, il piatto che consumiamo nel modo in cui l’uomo si è accostato al nutrimento fin dagli albori della specie.

L’ostrica è un caso estremo, ma tutti i cibi crudi sono affascinanti, perché anomali un apparente regresso a un mondo precivilizzato e persino ad una fase preumana dell’evoluzione. Cucinare è una delle attività relativamente rare, che possono dirsi peculiarmente umane: originali rispetto alla generale tendenza riscontrata in natura

Mentre malinowski, pioniere dell’antropologia dell’area del pacifico era al lavoro sulle isole Trobriand, una delle cerimonie che lo impressionarono maggiormente fu la festività annuale dei raccolto di igname (un tubero farinoso) a Kiriwina, dove gran parte dei rituali assume va la forma di distribuzione di cibo. Con l’accompagnamento di danze e tamburi, le pietanze erano accatastate in mucchi, poi trasportate via, alle varie abitazioni, e consumate in privato. Quello che nella visione di molte culture è considerato il culmine del banchetto — l’atto effettivo del mangiare — non veniva mai raggiunto; l’elemento festivo risiedeva nella preparazione

Presso alcuni popoli, la cottura diviene metafora della trasformazione della vita: le tribù californiane, per esempio, calavano puerpere e ra gazze pubescenti in forni scavati nel terreno, coperti con stuoie e pietre roventi.

Il comune termine giapponese per indicare il pasto (gohanmono) significa letteralmente “onorevole riso cotto’. Ciò non riflette solo il ruolo essenziale e l’onnipresenza di questo cereale nella cultura nipponica, ma anche la natura sociale dei momenti dedicati all’alimentazione. La vita è scandita da pasti rituali. Alla nascita di un bambino, i genitori ricevono in dono offerte di riso rosso, o di riso con fagioli rossi, da amici e familiari; al suo primo compleanno, distribuiranno frammenti di un dolce di riso che il bimbo ha calpestato. La costruzione di una nuova casa è accompagnata dal sacrificio di due pesci: poi la si inaugura invitando a un pranzo i vicini.

Gli sposi portano via dal ricevimento doni commestibili come talismani di longevità: dolcetti di riso con l’immagi ne di gru o tartarughe, o pasta di pesce plasmata nella stessa forma. Al tri alimenti rappresentano la comunione con i defunti e ricorrono nei loro anniversari. Nella società indù, le regole relative al cibo sono estremamente importanti per contraddistinguere e mantenere i legami e le divisioni sociali. Ogni casta si colloca social mente secondo il suo grado di purezza e ciò si riflette nei generi alimentari che può o meno condividere con ic altre.

Gli alimenti crudi possono es sere scambiati tra tutte le caste; non, invece, quelli cotti, perché rischiano di alterare lo stato di purezza della casta in questione.’ Le vivande cotte sono poi ulteriormente suddivise: quelle bollite in ac qua si distinguono da quelle fritte nel burro chiarificato, che possono es sere scambiate con un più vasto numero di gruppi.

Oggi, in culture che si ritengono moderne, la maggior parte dei cibi che consideriamo crudi giunge in tavola solo dopo un’elaborata preparazione.

È importante precisare “che consideriamo crudi” perché l’esser crudo è un concetto culturalmente costruito, o per lo meno cultural mente modificato. Tendiamo a riconoscere esplicitamente come crudi solo i cibi che normalmente si consumano cotti (“zucchine crude”, “melanzane crude” eccetera), mentre diamo per scontata la crudità, in quanto culturalmente “normale”, di molti frutti e verdure che consumiamo con un grado minimo di lavorazione (nessuno parla di mele crude, di lattuga cruda). Talvolta, poi, l’assenza di cottura si colorisce di tinte in quietanti che affondano le radici nell’antichità e che la complessità della preparazione sembra tenuta a compensare.

Per carne e pesce, in Occidente, esser serviti crudi è un caso talmente eccezionale, che assume una connotazione aggiuntiva di rischio e sovversione, di barbarie e primitivismo. I cinesi, tradizionalmente, classificavano le tribù barbare in “crude” e “cotte” secondo il grado di civiltà che attribuivano a ciascuna, e una simile divisione mentale dei mondo si produce facilmente alle nostre latitudini, dove la tradizione letteraria ha a lungo equiparato il gusto della carne cruda a una natura selvaggia e sanguinaria, al furore di uno stomaco impaziente.

Il piatto classico a base di carne “cruda” della cucina occidentale è lo steak tartare, Il nome allude alla reputazione medievale di ferocia dei mongoli, detti anche tartari dalla denominazione di uno specifico gruppo di tribù. Agli etnografi medievali, il termine ricordava il Tartaro, luo go dell’inferno classico, e appariva perciò particolarmente efficace per demonizzare quelle popolazioni.’ Il piatto come lo conosciamo oggi, tuttavia, è un concentrato di civilizzata sovracompensazione. La carne è macinata in morbidi riccioli d’un colore brillante. Come per rimediare alla sua crudità, viene in genere preparata al tavolo in una sorta di rituale, durante il quale il cameriere vi incorpora, uno a uno, ingredienti vo ti a esaltarne il sapore: condimenti, erbe aromatiche, cipolla fresca, cap- peri, acciughe a pezzetti, pepe nero, olive, un uovo crudo. La vodka è un’aggiunta poco ortodossa, ma un incommensurabile arricchimento. Anche le altre pietanze crude a base di carne e pesce approvate dalla ci viltà sono ugualmente strappate alla natura, la loro nudità pesantemente coperta di orpelli, la loro indole selvaggia anestetizzata con complesse elaborazioni.

Il prosciutto “crudo” è sottoposto a pesanti procedimenti di conservazione.

Il carpaccio è affettato con elegante finezza in frammenti delicati e nessuno si sognerebbe di mangiarlo finché non sia co sparso d’olio di oliva su un letto di pepe e parmigiano. II graviax, benché oggi non venga più posto sotto terra, è coperto di sale, aneto e pepe, e la sciato a riposare con la sua salamoia per diversi giorni prima di arrivare in tavola. «Del resto, se i nostri trisavoli mangiavano i cibi crudi» scrisse Brillat-Savarin in un’opera del 1816, che è ancora la bibbia dei buongustai e l’apologia dei golosi, «noi non ne abbiamo perduto del tutto l’abitudine

. I palati più delicati mangiano ben volentieri le salsicce di ArIes, la mortadella, il bue affumicato d’Amburgo, le acciughe, le aringhe sala te e altri cibi simili, che non sono stati sui fuoco e che non per questo suscitano meno l’appetito.»” il sushi, ormai un must della ristorazione occidentale più alla moda, contiene sì pesce crudo condito assai leggermente (con aceto e zenzero), ma il suo ingrediente principale è il riso cotto, talvolta con l’aggiunta cli un involucro di alghe tostate.

In quasi tutte le culture, le origini della cucina sono fatte risalire a un o divino : la fiamma prometeica o all’impresa di un eroe. Per gli antichi chi greci, il fuoco era un segreto dell’Olimpo trafugato da un ribelle, nell’antica Persia era stato fatto divampare dal cuore di una roccia dal giavellotto di un cacciatore che aveva sbagliato la mira. Per gli indiani dakota, la prima scintilla era stata prodotta, sfregando per terra, dalle fauci di un dio-giaguaro, per gli aztechi il primo falò era stato il sole, alimentato dagli dei nel buio primordiale e poi portato sulle isole Cook da Maui, dopo la sua discesa nelle viscere della Terra.

Una leggenda aborigena vuole che un uomo trovasse il fuoco celato nel pene di un animale totemico, mentre, secondo un’altra, era stato un’invenzione delle donne, che vi cucinavano sopra durante l’assenza dei maschi e poi se Io nascondevano dentro la vulva

Tutti hanno il loro Prometeo: praticamente ogni cultura ne possiede una propria versione.

Le vere origini della domesticazione del fuoco sono sconosciutele teorie formulate in materia sembrano più che altro il frutto di una qualche illuminazione improvvisa, come scintille prodotte da una pietra focaia.

E’ possibile che una qualche forma di cottura fosse praticata persino prima che il fuoco venisse domato. Molti animali sono attratti dalle braci ardenti di incendi naturali, tra cui rovistano in cerca di semi e legumi arrostiti, ammorbiditi e più facilmente commestibili.

Si potrebbe supporre che la pratica di cuocere i cibi sia derivata come conseguenza inevitabile dalla domesticazione delle fiamme. Nell’Occidente moderno il mito più comune è ben rappresentato dal resoconto immaginario delle origini della cucina, contenuto nella dissertazjone sul maiale arrosto (A Dissertation Upon Roast Pig) di Charles Lamb, in cui il figlio di un porcaio ha inavvertitamente immolato un’intera figliata di maialini in un incendio causato per distrazione.

Mentre pensava a che cosa dire a suo padre e si torceva le mani sopra i resti fumanti d’una delle vittime, ancora tenerelle , un odore gli aggredì le narici, quale mai aveva sentito prima.

E… Al tempo stesso, un’acquolina densa di presagi gli colò giù dal labbro inferiore. Non sapeva che pensare. Poi si chinò a ispezionare il maiale, caso mai desse un segno di vita. Si ustionò le dita e, per trovare sollievo, se le portò alla bocca con quel suo fare idiota.

Alcuni frammenti di pelle bruciacchiata gli eran rimasti attaccati ai polpastrelli e, per la prima volta in vita sua (anzi, nella vita del mondo, giacché a nessun uomo era mai capitato) gustò [...] cotenna croccante!

La cosa prese piede» finché «l’abitudine di bruciare le case» non venne abbandonata grazie all’intervento di un saggio. Egli «fece la scoperta che la carne di maiale, o di qualunque altro animale, si poteva cuocere (bruciare, come essi dicono) senza bisogno cli ardere un’intera baracca…………

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La nascita della proto-agricoltura ( da Storia commestibile dell’umanità)

Il meccanismo con cui vennero domesticati animali e piante è comprensibile, ma non dice molto sulle motivazioni che ne stanno alla base.

Perché gli umani siano passati dalla raccolta e dalla caccia all’agricoltura è una delle domande più antiche e complesse della storia umana.

Si tratta di un vero mistero, perché quel cambiamento – va detto – peggiorò la vita dell’uomo, e non solo da un punto di vista nutrizionale.


Non a caso, un antropologo ha definito l’adozione dell’ agricoltura «il peggior errore nella storia della razza umana».


Essere un cacciatore-raccoglitore era molto, molto più divertente che coltivare la terra.

Gli antropologi moderni che hanno trascorso del tempo in compagnia di gruppi superstiti di cacciatori-raccoglitori riferiscono che, anche nelle zone più marginali dove oggi sono costretti a vivere, la raccolta del cibo esige solo una minima parte del loro tempo, e comunque molto meno di quanto ne richieda produrre la medesima quantità di cibo con l’agricoltura.

I boscimani Kung del Kalahari, ad esempio, dedicano dalle dodici alla diciannove ore settimanali alla raccolta del cibo, e i nomadi Hazda della Tanzania meno di quattordici.

Questo lascia un bel po’ di tempo libero per attività piacevoli, per socializzare e così via. Quando un antropologo chiese a un boscimane perché la sua gente non avesse adottato l’agricoltura, si sentì rispondere: «Perché mai dovremmo metterci a coltivare, visto che al mondo ci sono così tante noci di mongongo?». ( I frutti e le noci di mongongo, che costituiscono circa la metà della dieta dei !Kung, vengono raccolti da piante selvatiche che sono mol- to diffuse nonostante nessuno cerchi di propagarle.)

Di fatto, i  cacciatori-raccoglitori lavorano due giorni alla settimana e hanno un week-end di cinque giorni. Lo stile di vita dei cacciatori-raccoglitori in epoca preagricola, in ambienti meno marginali, probabilmente doveva essere ancora più piacevole. Un tempo si pensava che l’avvento dell’agricoltura avesse dato all’uomo più tempo da dedicare alle attività artistiche, allo svi luppo di nuovi mestieri e tecnologie e così via. Secondo questa tesi, l’ agricoltura affrancò l’uomo da un’angosciante esistenza alla giornata, tipica dei cacciatori-raccoglitori. In realtà è vero il contrario. L’agricoltura è più produttiva nel senso che produce più cibo per una data superficie di terra: un gruppo di venticinque persone può vivere coltivando appena venticinque acri, un’area ben più piccola delle de- cine di migliaia di acri che gli occorrerebbero per sopravvivere di caccia e raccolta.

Ma l’agricoltura è meno produttiva se la si misura in base alla quantità di cibo prodotto per un’ora di lavoro. In altre parole, è un’impresa molto più faticosa.

Di certo questa fatica fu utile, visto che gli esseri umani non dovettero più preoccuparsi della malnutrizione o della fame, giusto? Può darsi.

Eppure, a quanto sembra i cacciatori-raccoglitori erano molto più sani dei primi agricoltori. In base ai reperti archeologici, i contadini erano molto più soggetti dei cacciatori-raccoglitori a ipoplasia dello smalto (una caratteristica rigatura orizzontale dei denti che indica problemi nutrizionali). Gli agricoltori seguono una dieta meno varia e meno bilanciata dei cacciatori-raccoglitori. I boscimani mangiano circa settantacinque tipi diversi di piante selvatiche, invece di affidarsi a poche colture principali. I cereali fornisco- no sufficienti calorie, ma non contengono l’intero spettro di nutrienti essenziali. Per questo gli agricoltori erano più bassi dei cacciatori-raccogli- tori. Lo si può determinare dai resti ossei, confrontando l’età “dentaria” suggerita dai denti con l’ età “dello scheletro” suggerita dalla lunghezza delle ossa lunghe. Un’età dello scheletro che sia inferiore a quella dei denti è indice di crescita stentata dovuta a malnutrizione. I resti di scheletri rinvenuti in Grecia e in Turchia suggeriscono che alla fine dell’ultima era glaciale, circa 14 000 anni fa, l’altezza media dei cacciatori-raccoglitori fosse di 1,75 metri circa per i maschi e 1,65 circa per le donne. Nel 3000 a.C., dopo l’adozione dell’agricoltura, queste medie erano crollate a 1,6o per gli uomini e 1,5o per le donne.

Solo in epoca moderna gli esseri umani hanno riguadagnato la statura degli antichi cacciatori-raccoglitori, e solo nelle zone più ricche del mondo. I greci e i turchi moderni sono ancora più bassi dei loro antenati dell’età della pietra.

Inoltre, molte malattie provocano danni caratteristici allo scheletro: studiando i reperti ossei si è scoperto che gli agricoltori soffrivano di varie patologie dovute a malnutrizione, che nei cacciatori-raccoglitori erano rare o assenti, come il rachitismo ( carenza di vitamina D), lo scorbuto (carenza di vitamina c) e l’ anemia (carenza di ferro). Gli agricoltori, a causa del loro stile di vita stanziale, erano anche più soggetti a malattie infettive come lebbra, tubercolosi e malaria. Inoltre, la loro dipendenza dai cereali aveva altre conseguenze: gli scheletri femminili spesso mostrano artrite alle giunture e deformità delle dita dei piedi, delle ginocchia e della regione lombare, tutte associate all’uso giornaliero della macina a mano per ridurre la granella in farina. I resti dentali evidenziano che gli agricoltori soffrivano di carie, disturbo ignoto ai cacciatori- raccoglitori, poiché i carboidrati delle diete ricche di cereali degli agricoltori venivano ridotti in zuccheri dagli enzimi della saliva durante la masticazione. Anche l’aspettativa di vita, determinabile sempre dallo scheletro, precipitò; secondo i reperti rinvenuti nella Illinois River Valley, l’aspettativa media di vita passò da ventisei anni per i cacciatori-raccoglitori a diciannove per gli agricoltori. In alcuni siti archeologici è possibile seguire l’andamento nel tempo dello stato di salute, via via che i cacciatori-raccoglitori di- ventano più sedentari, fino ad adottare l’agricoltura.

Mano a mano che i gruppi diventano stanziali e si ingrandiscono, aumenta l’incidenza di malnutrizione, malattie parassitarie e malattie infettive.

Gli agricoltori stanziai, in definitiva, erano invariabilmente meno sani dei loro vicini nomadi: dovevano lavorare molto più a lungo e più sodo per produrre una dieta meno varia e meno nutriente, ed erano molto più soggetti a malattie. Considerati gli svantaggi, perché diamine gli esseri umani si diedero all’agricoltura?

La risposta, in sintesi, è che non si accorsero di quel che accadeva se non quando fu troppo tardi. Il passaggio dalla caccia e dalla raccolta all’agricoltura fu graduale, almeno dal punto di vista dei singoli individui; dalla prospettiva della storia umana fu invece molto rapido. Infatti, proprio come le colture selvatiche e quelle domesticate formano un continuum, tra i raccoglitori puri e gli agricoltori puri c’è un’ampia zona intermedia.

Ad esempio, capita a volte che i cacciatori-raccoglitori manipolino gli ecosistemi per aumentare la disponibilità di cibo, anche se questo comportamento non si avvicina neppure alla coltivazione deliberata e su grande scala che chiamiamo agricoltura.

Usare il fuoco per ripulire la terra e stimolare la fertilità, ad esempio, è una pratica vecchia di almeno 35 000 anni.

Gli aborigeni australiani, uno dei pochi gruppi di cacciatori- raccoglitori a essere sopravvissuti fino a oggi, di tanto in tanto piantano semi per aumentare la disponibilità di cibo nei luoghi in cui prevedono di ritornare a distanza di qualche mese. In questo caso sarebbe esagerato parlare di agricoltura, visto che il cibo in questione costituisce solo una minima parte della loro dieta, ma questa manipolazione deliberata dell’ecosistema implica che gli aborigeni non siano cacciatori-raccoglitori puri.

L’agricoltura fu adottata un po’ alla ‘volta, via via che gli esseri umani smettevano di essere cacciatori-raccoglitori puri e comincia- vano a fare maggiore affidamento sul cibo coltivato, fino a diventarne dipendenti. Le teorie per spiegare tale passaggio abbondano, ma probabilmente non ci fu una sola causa. Piuttosto, si trattò di una combinazione di fattori, ognuno dei quali ebbe un ruolo più o meno rilevante nelle varie zone in cui l’agricoltura comparve in modo indipendente.

Uno dei più importanti sembra essere stato il cambiamento cli- matico. Studi sul clima antico, basati sull’analisi dei ghiacci, dei fondali marini e dei pollini fossili, hanno scoperto che tra il 18 000 e il 9500 a.C. il clima era freddo, asciutto ed estremamente variabile, quindi qualsiasi tentativo di coltivare o domesticare le piante sarebbe fallito miseramente.

Ciononostante vi sono prove di almeno un tentativo di questo genere, in un posto chiamato Abu-Hureyra nella Siria settentrionale. A quanto pare, intorno al Io 700 a.C. gli abitanti del luogo cominciarono a domesticare la segale, ma l’esperimento fu stroncato sul nascere da un’improvvisa fase di freddo, detta Younger  Dryas, che ebbe inizio proprio in quel periodo e durò per circa 1200 anni. Poi, intorno al 9500 a.C. il clima diventò più caldo, più umido e stabile: una condizione di certo indispensabile per l’agricoltura, ma non sufficiente. Dopo tutto, se quel nuovo clima stabile fosse stato l’ unico fattore “scatenante”, allora tutti i popoli del mondo avrebbe- ro dovuto adottare l’agricoltura simultaneamente. Ma così non fu, perciò dovettero esserci altre forze all’opera.

Una di queste fu la maggiore sedentarietà, quando in alcune parti del mondo i cacciatori-raccoglitori divennero meno nomadi e cominciarono a trascorrere gran parte dell’anno nello stesso accampamento o ad adottare una residenza permanente. Ci sono molti esempi di comunità sedentarie che risalgono a un’epoca antecedente l’adozione dell’agricoltura, come quelle della cultura natufiana del Vicino Orien- te, che fiorì nel millennio precedente al Younger  Dryas, e altre sulla costa settentrionale del Perù e nella regione del Pacifico nordoccidentale dell’America del Nord.

In ogni caso questi insediamenti fu rono possibili grazie all’abbondanza di cibo non domesticato, come pesci o molluschi. Di norma, infatti, i cacciatori-raccoglitori sposta- vano i propri accampamenti per evitare che le risorse alimentari di una certa area si esaurissero, o per sfruttare la disponibilità stagionale dei vari cibi. Ma non c’è bisogno di spostarsi se vi stabilite accanto a un fiume ed è il cibo a venire da voi. Anche il perfezionamento delle tecniche, come frecce, reti e ami da, pesca migliori, avvenuto verso la fine dell’età della pietra, può aver promosso la sedentarietà. Una vol ta che il gruppo di cacciatori-raccoglitori fu in grado di ottenere più cibo (pesce, piccoli roditori o molluschi, ad esempio) dal luogo in cui viveva, non ebbe più bisogno di spostarsi. ………………..

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La pizza….

Da “Il ventre di Napoli” di Matilde Serao

Un giorno, un industriale napoletano ebbe un’idea. Sapendo che la pizza è una delle adorazioni cucinarie napoletane, sapendo che la colonia napoletana in Roma è larghissima, pensò di aprire una pizzeria in Roma. Il rame delle casseruole e dei ruoti vi luccicava, il forno vi ardeva sempre; tutte le pizze vi si trovavano: pizza al pomidoro, pizza con muzzarella e formaggio, pizza con alici e olio, pizza con olio, origano e aglio. Sulle prime la folla vi accorse, poi andò scemando.

La pizza, tolta al suo ambiente napoletano, pareva una stonatura e rappresentava una indigestione; il suo astro impallidì e tramontò, in Roma; pianta esotica, morì in questa solennità romana.
È vero, infatti: la pizza rientra nella larga categoria dei commestibili che costano un soldo, e di cui è formata la colazione o il pranzo, di moltissima parte del popolo napoletano.
Il pizzaiuolo che ha bottega, nella notte, fa un gran numero di queste schiacciate rotonde, di una pasta densa, che si brucia, ma non si cuoce, cariche di pomidoro quasi crudo, di aglio, di pepe, di origano: queste pizze in tanti settori da un soldo, sono affidate a un garzone, che le va a vendere in qualche angolo di strada, sovra un banchetto ambulante e lì resta quasi tutto il giorno, con questi settori di pizza che si gelano al freddo, che si ingialliscono al sole, mangiati dalle mosche. Vi sono anche delle fette di due centesimi, pei bimbi che vanno a scuola; quando la provvista è finita, il pizzaiuolo la rifornisce, sino a notte.
Vi sono anche, per la notte, dei garzoni che portano sulla testa un grande scudo convesso di stagno, entro cui stanno queste fette di pizza e girano pei vicoli e dànno un grido speciale, dicendo che la pizza ce l’hanno col pomidoro e con l’aglio, con la muzzarella e con le alici salate. Le povere donne sedute sullo scalino del basso, ne comprano e cenano, cioè pranzano, con questo soldo di pizza.

Dal Viaggio di giannettino ( Collodi )


Nell’introduzione di Piero Camporesi al ricettarlo dell’Artusi troviamo una citazione poco conosciuta, eppur illuminante da «Il viaggio di Giannettino» (1881) di Carlo Collodi. A proposito della pizza vi si legge che «. . quel nero del pane abbrustolito, quel bianchiccio dell’aglio  e dell’alice, quel giallo verdacchio dell’olio e dell’erbucce soffiritte e quei pezzi rossi qua e là di pomidoro danno alla pizza un ‘aria di sudiciume complicato che sta benissimo con quello dei venditore».

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E VOLTAIRE ??

Abbiamo parlato dell’amore.

È duro passare dalla gente che si bacia a quella che si mangia.

labirinto cretese

Ma è fin troppo vero che ci sono stati degli antropofagi; ne abbiamo trovati in America; forse ce ne sono ancora, e nell’antichità i ciclopi non erano i soli a cibarsi talvolta di carne umana. Giovenale riferisce che presso gli egiziani, quel popolo così saggio, così rinomato per le sue leggi, quel popolo così pio che adorava i coccodrilli e le cipolle, i tintiriti mangiarono uno dei loro nemici caduto nelle loro mani; e non fa questo racconto per sentito dire: fu un delitto commesso quasi sotto i suoi occhi; egli era allorain Egitto e a poca distanza da Tintiro. Giovenale cita, in quest’occasione, i guasconi e i saguntini, che si nutrirono un tempo delle carni dei loro compatrioti.
Nel 1725 quattro selvaggi del Mississippi vennero condotti a
Fontainebleau, e io ebbi l’onore di intrattenerli; c’era fra loro una
donna di laggiù, alla quale chiesi se avesse mai mangiato uomini: mi rispose con grande ingenuità che ne aveva mangiati. Le sembrai un po’ scandalizzato, e lei si scusò dicendo che è meglio mangiare il proprio nemico morto che lasciarlo divorare dagli animali, e che i vincitori meritavano di avere la preferenza. Noi ammazziamo in battaglia, campale o meno, i nostri vicini e per la più misera ricompensa lavoriamo per fornire il pasto a corvi e vermi. Questo è l’orrore, questo il delitto; che importa, quando si è uccisi, se si viene mangiati da un soldato o da un corvo o da un cane?
Noi rispettiamo più i morti che i vivi. Dovremmo rispettare gli uni e gli altri.

Le nazioni cosiddette civili hanno avuto ragione a non mettere allo spiedo i loro nemici vinti, perché, se fosse permesso mangiare i propri vicini, non tarderemmo a mangiare i nostri compatrioti; il che sarebbe un grosso inconveniente per le virtù sociali. Ma le nazioni civili non sempre sono state tali; tutti i
popoli furono a lungo selvaggi; e nell’infinito numero di rivoluzioni che questo globo ha subito, il genere umano fu ora numeroso, ora assai scarso.

È successo degli uomini quello che succede oggi degli
elefanti, delle tigri e dei leoni, la cui specie è molto diminuita.
Nei tempi in cui una contrada era poco popolata d’uomini, essi avevano poche arti, erano cacciatori. L’abitudine di nutrirsi di quel che avevano ucciso li portò facilmente a trattare i nemici al pari dei loro cervi o dei loro cinghiali. Fu la superstizione a far immolare vittime umane, e la necessità a farle mangiare.
Qual è il delitto più grande: riunirsi piamente per piantare un
coltello nel cuore di una giovinetta ornata di bende, in onore della Divinità, o mangiare un soldataccio ucciso per caso?
Tuttavia abbiamo molti più esempi di giovinette e giovani sacrificati che non di giovinette e giovani mangiati: quasi tutti i popoli conosciuti ne sacrificarono. Ne immolarono anche gli ebrei: questo si chiamava l’«anatema»: era un vero e proprio sacrificio, e nel ventinovesimo capitolo del Levitico è prescritto di non risparmiare le anime viventi che siano state consacrate; ma in nessun luogo è prescritto di mangiarle, lo si minaccia soltanto; e Mosè, come abbiamo visto, dice agli ebrei che, se non osserveranno le sue cerimonie, non solamente avranno la rogna, ma le madri mangeranno i propri figli.

È vero che ai tempi d’Ezechiele i giudei dovevano avere l’usanza di mangiare carne umana, perché egli predice, nel capitolo XXXIX, che Dio farà loro mangiare non solo i cavalli dei loro nemici, ma anche i cavalieri e i loro guerrieri. Questo è certo.

E, d’altra parte,perché gli ebrei non avrebbero dovuto essere antropofagi? Sarebbe stata la sola cosa che mancava al popolo di Dio per essere il più abominevole popolo della terra.
Ho letto in alcuni aneddoti della storia d’Inghilterra dei tempi di Crornwell che una candelaia di Dublino vendeva ottime candele fatte con il grasso degli inglesi.

Qualche tempo dopo uno dei suoi clienti si lamentò con lei perché le sue candele non erano più così buone.
«Ahimè!» rispose quella, «il fatto è che questo mese ci sono
venuti a mancare gli inglesi.» Io mi domando chi era più colpevole:
se quelli che sgozzavano gli inglesi o questa donna che con il loro
grasso faceva candele.

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Intro

Un grande animale del genere bovino si avvicinò al tavolo di Zaphod Beeblebrox. Era grosso, con occhi acquosi, piccole corna e sulle labbra qualcosa che poteva assomigliare a un sorriso accattivante.

— Buonasera — disse, accovacciandosi in terra. — Io sono il principale piatto del giorno. Vi sono parti dei mio corpo che vi interessano particolarmente?

— Borbottò e farfugliò qualcosa tra sé, simise in una posizione più comoda e osservò Beeblebrox e gli altri con aria tranquilla.

Arthur e Trillian fissarono l’animale stupefatti. Ford Prefect scrollò le spalle, Zaphod Beeblebrox invece lo scrutò fainelico, con l’acquolina in gola.

— Forse preferite un pezzo di spalla?

— disse la bestia.

— Un bel brasato al vino bianco?

Ehm, un pezzo della vos tra spalla? – disse Arthur, inorridito.

— Ma certo, signore

— rispose felice l’animale.

— Non posso certo offrire la carne di un altro.

Zaphod scattò in piedi e cominciò a palpare con aria di apprezzamento la spalla dei piatto dei giorno.

— Ma anche il posteriore è ottimo

— mormorò la bestia.

— Ho fatto ginnastica e mangiato un mucchio di cereali, perciò c’è tanta buona carne. qua di dietro.

— Emise un lieve grugnito, bofonchiò qualcosa tra sé, ruminò un po’, poi riprese il discorso.

— 0 preferite lo stufato ai brasato? — chiese.

— Vuoi dire che questo animale vuole veramente che lo mangiamo? — disse Trillian, rivolta a Ford.

— Io? lo non voglio dire proprio niente — replicò Ford, con sguardo vitreo.

–Ma è orribile

— esclamò Arthur.

— È la cosa più abominevole che mi sia mai toccato di sentire.

— Che cosa c’è che non va, terrestre?

— chiese Zaphod, esaminando l’enorme deretano dell’animale.

— C’è che non voglio mangiare una bestia che mi sta davanti agli occhi viva e che mi invita a mangiarla

— disse Arthur.

— E’ disumano.

— È sempre meglio che mangiare un animale che non vuole essere mangiato

— disse Zaphod.

— Non è questo il punto

— protestò Arthur. Poi ci pensò un attimo e disse:

— E va be’, forse è proprio il punto, nia adesso non ho nessuna voglia di pensarci. Perciò mi limiterò a… ehm,,, a mangiare un piatto di insalata.

— Posso esortarvi a prendere in considerazione il mio fegato?

—disse la bestia.

— A quest’ora dovrebbe essere tenerissimo e molto nutriente, perché sono mesi che mi sottopongo a una dieta abbondante e  ipervitaminica.

–Un piatto di insalata disse Arthur, eon enfasi.

— Un piatto di insalata? — grugnì l’animale, rivolgendo ad Arthur un’occhiata di rimprovero.

— Non vorrete dirmi per caso che faccio male a prendere un piatto di insalata?

— disse Arthur.

— Be’

— disse l’animale

— CONOSCO molte piante d’insalata che non esiterebbero a rispondervi di si. Ed è proprio per questo che alla fine. per porre un rimedio al problema, si è deciso di allevare un animale che volesse veramente essere mangiato e fosse in grado di dirlo chiaramente, senza mezzi termini. Ed eccomi qui, infatti. Fece un piccolo inchino.

— Allora io prendo un bicchier d’acqua

— disse Arthur.

Senti disse Zaphod vogliamo mangiare, non filosofare.

– Quattro bistecche di prima qualità, per favore. 13 in fretta. Sono cinquecentosettantaseimila milioni di anni che non mettiamo qualcosa sotto i denti.

L’animale si alzò faticosamente in piedi, con un lieve grugnito soddisfatto.

– Un’ottima scelta, signore, se mi consente. Davvero ottima. Vado subito a spararmi.

Si girò e strizzò l’occhio Arthur con aria amichevole.

— Non preoccupatevi, signore

— disse.

— Sarò molto umano con me stesso.

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