Caso pressoché unico nel repertorio della moderna cucina occidentale, l’ostrica viene consumata senza essere cotta né uccisa.
E’ quanto esiste di più vicino al cibo “naturale”, il solo alimento che merita di essere definito au naturel senza ironia.
Ovviamente, quando la mangiamo al ristorante, la sua conchiglia è stata forzata e aperta con tutto l’armamentario messo a disposizione dalla civiltà, da un professionista specializzato munito di apposita tecnologia: un rituale inviolabile e ammantato di eleganza.
Prima ancora, è stata allevata sott’acqua su un supporto di pietra o un traliccio di legno, in banchi, cresciuta per anni sotto occhi esperti e raccolta da mani sapienti: non staccata da uno scoglio come un bottino sottratto alla natura. E tuttavia è il cibo che ci lega a tutti i nostri antenati, il piatto che consumiamo nel modo in cui l’uomo si è accostato al nutrimento fin dagli albori della specie.
L’ostrica è un caso estremo, ma tutti i cibi crudi sono affascinanti, perché anomali un apparente regresso a un mondo precivilizzato e persino ad una fase preumana dell’evoluzione. Cucinare è una delle attività relativamente rare, che possono dirsi peculiarmente umane: originali rispetto alla generale tendenza riscontrata in natura
Mentre malinowski, pioniere dell’antropologia dell’area del pacifico era al lavoro sulle isole Trobriand, una delle cerimonie che lo impressionarono maggiormente fu la festività annuale dei raccolto di igname (un tubero farinoso) a Kiriwina, dove gran parte dei rituali assume va la forma di distribuzione di cibo. Con l’accompagnamento di danze e tamburi, le pietanze erano accatastate in mucchi, poi trasportate via, alle varie abitazioni, e consumate in privato. Quello che nella visione di molte culture è considerato il culmine del banchetto — l’atto effettivo del mangiare — non veniva mai raggiunto; l’elemento festivo risiedeva nella preparazione
Presso alcuni popoli, la cottura diviene metafora della trasformazione della vita: le tribù californiane, per esempio, calavano puerpere e ra gazze pubescenti in forni scavati nel terreno, coperti con stuoie e pietre roventi.
Il comune termine giapponese per indicare il pasto (gohanmono) significa letteralmente “onorevole riso cotto’. Ciò non riflette solo il ruolo essenziale e l’onnipresenza di questo cereale nella cultura nipponica, ma anche la natura sociale dei momenti dedicati all’alimentazione. La vita è scandita da pasti rituali. Alla nascita di un bambino, i genitori ricevono in dono offerte di riso rosso, o di riso con fagioli rossi, da amici e familiari; al suo primo compleanno, distribuiranno frammenti di un dolce di riso che il bimbo ha calpestato. La costruzione di una nuova casa è accompagnata dal sacrificio di due pesci: poi la si inaugura invitando a un pranzo i vicini.
Gli sposi portano via dal ricevimento doni commestibili come talismani di longevità: dolcetti di riso con l’immagi ne di gru o tartarughe, o pasta di pesce plasmata nella stessa forma. Al tri alimenti rappresentano la comunione con i defunti e ricorrono nei loro anniversari. Nella società indù, le regole relative al cibo sono estremamente importanti per contraddistinguere e mantenere i legami e le divisioni sociali. Ogni casta si colloca social mente secondo il suo grado di purezza e ciò si riflette nei generi alimentari che può o meno condividere con ic altre.
Gli alimenti crudi possono es sere scambiati tra tutte le caste; non, invece, quelli cotti, perché rischiano di alterare lo stato di purezza della casta in questione.’ Le vivande cotte sono poi ulteriormente suddivise: quelle bollite in ac qua si distinguono da quelle fritte nel burro chiarificato, che possono es sere scambiate con un più vasto numero di gruppi.
Oggi, in culture che si ritengono moderne, la maggior parte dei cibi che consideriamo crudi giunge in tavola solo dopo un’elaborata preparazione.
È importante precisare “che consideriamo crudi” perché l’esser crudo è un concetto culturalmente costruito, o per lo meno cultural mente modificato. Tendiamo a riconoscere esplicitamente come crudi solo i cibi che normalmente si consumano cotti (“zucchine crude”, “melanzane crude” eccetera), mentre diamo per scontata la crudità, in quanto culturalmente “normale”, di molti frutti e verdure che consumiamo con un grado minimo di lavorazione (nessuno parla di mele crude, di lattuga cruda). Talvolta, poi, l’assenza di cottura si colorisce di tinte in quietanti che affondano le radici nell’antichità e che la complessità della preparazione sembra tenuta a compensare.
Per carne e pesce, in Occidente, esser serviti crudi è un caso talmente eccezionale, che assume una connotazione aggiuntiva di rischio e sovversione, di barbarie e primitivismo. I cinesi, tradizionalmente, classificavano le tribù barbare in “crude” e “cotte” secondo il grado di civiltà che attribuivano a ciascuna, e una simile divisione mentale dei mondo si produce facilmente alle nostre latitudini, dove la tradizione letteraria ha a lungo equiparato il gusto della carne cruda a una natura selvaggia e sanguinaria, al furore di uno stomaco impaziente.
Il piatto classico a base di carne “cruda” della cucina occidentale è lo steak tartare, Il nome allude alla reputazione medievale di ferocia dei mongoli, detti anche tartari dalla denominazione di uno specifico gruppo di tribù. Agli etnografi medievali, il termine ricordava il Tartaro, luo go dell’inferno classico, e appariva perciò particolarmente efficace per demonizzare quelle popolazioni.’ Il piatto come lo conosciamo oggi, tuttavia, è un concentrato di civilizzata sovracompensazione. La carne è macinata in morbidi riccioli d’un colore brillante. Come per rimediare alla sua crudità, viene in genere preparata al tavolo in una sorta di rituale, durante il quale il cameriere vi incorpora, uno a uno, ingredienti vo ti a esaltarne il sapore: condimenti, erbe aromatiche, cipolla fresca, cap- peri, acciughe a pezzetti, pepe nero, olive, un uovo crudo. La vodka è un’aggiunta poco ortodossa, ma un incommensurabile arricchimento. Anche le altre pietanze crude a base di carne e pesce approvate dalla ci viltà sono ugualmente strappate alla natura, la loro nudità pesantemente coperta di orpelli, la loro indole selvaggia anestetizzata con complesse elaborazioni.
Il prosciutto “crudo” è sottoposto a pesanti procedimenti di conservazione.
Il carpaccio è affettato con elegante finezza in frammenti delicati e nessuno si sognerebbe di mangiarlo finché non sia co sparso d’olio di oliva su un letto di pepe e parmigiano. II graviax, benché oggi non venga più posto sotto terra, è coperto di sale, aneto e pepe, e la sciato a riposare con la sua salamoia per diversi giorni prima di arrivare in tavola. «Del resto, se i nostri trisavoli mangiavano i cibi crudi» scrisse Brillat-Savarin in un’opera del 1816, che è ancora la bibbia dei buongustai e l’apologia dei golosi, «noi non ne abbiamo perduto del tutto l’abitudine
. I palati più delicati mangiano ben volentieri le salsicce di ArIes, la mortadella, il bue affumicato d’Amburgo, le acciughe, le aringhe sala te e altri cibi simili, che non sono stati sui fuoco e che non per questo suscitano meno l’appetito.»” il sushi, ormai un must della ristorazione occidentale più alla moda, contiene sì pesce crudo condito assai leggermente (con aceto e zenzero), ma il suo ingrediente principale è il riso cotto, talvolta con l’aggiunta cli un involucro di alghe tostate.
In quasi tutte le culture, le origini della cucina sono fatte risalire a un o divino : la fiamma prometeica o all’impresa di un eroe. Per gli antichi chi greci, il fuoco era un segreto dell’Olimpo trafugato da un ribelle, nell’antica Persia era stato fatto divampare dal cuore di una roccia dal giavellotto di un cacciatore che aveva sbagliato la mira. Per gli indiani dakota, la prima scintilla era stata prodotta, sfregando per terra, dalle fauci di un dio-giaguaro, per gli aztechi il primo falò era stato il sole, alimentato dagli dei nel buio primordiale e poi portato sulle isole Cook da Maui, dopo la sua discesa nelle viscere della Terra.
Una leggenda aborigena vuole che un uomo trovasse il fuoco celato nel pene di un animale totemico, mentre, secondo un’altra, era stato un’invenzione delle donne, che vi cucinavano sopra durante l’assenza dei maschi e poi se Io nascondevano dentro la vulva
Tutti hanno il loro Prometeo: praticamente ogni cultura ne possiede una propria versione.
Le vere origini della domesticazione del fuoco sono sconosciutele teorie formulate in materia sembrano più che altro il frutto di una qualche illuminazione improvvisa, come scintille prodotte da una pietra focaia.
E’ possibile che una qualche forma di cottura fosse praticata persino prima che il fuoco venisse domato. Molti animali sono attratti dalle braci ardenti di incendi naturali, tra cui rovistano in cerca di semi e legumi arrostiti, ammorbiditi e più facilmente commestibili.
Si potrebbe supporre che la pratica di cuocere i cibi sia derivata come conseguenza inevitabile dalla domesticazione delle fiamme. Nell’Occidente moderno il mito più comune è ben rappresentato dal resoconto immaginario delle origini della cucina, contenuto nella dissertazjone sul maiale arrosto (A Dissertation Upon Roast Pig) di Charles Lamb, in cui il figlio di un porcaio ha inavvertitamente immolato un’intera figliata di maialini in un incendio causato per distrazione.
Mentre pensava a che cosa dire a suo padre e si torceva le mani sopra i resti fumanti d’una delle vittime, ancora tenerelle , un odore gli aggredì le narici, quale mai aveva sentito prima.
E… Al tempo stesso, un’acquolina densa di presagi gli colò giù dal labbro inferiore. Non sapeva che pensare. Poi si chinò a ispezionare il maiale, caso mai desse un segno di vita. Si ustionò le dita e, per trovare sollievo, se le portò alla bocca con quel suo fare idiota.
Alcuni frammenti di pelle bruciacchiata gli eran rimasti attaccati ai polpastrelli e, per la prima volta in vita sua (anzi, nella vita del mondo, giacché a nessun uomo era mai capitato) gustò [...] cotenna croccante!
La cosa prese piede» finché «l’abitudine di bruciare le case» non venne abbandonata grazie all’intervento di un saggio. Egli «fece la scoperta che la carne di maiale, o di qualunque altro animale, si poteva cuocere (bruciare, come essi dicono) senza bisogno cli ardere un’intera baracca…………